venerdì 19 marzo 2010

Romanzo infinito / terza sequenza

Orbe di Dentro

L’insonnia dell’assedio

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Nelle stanze basse si dorme male:
è la vigilia della ghigliottina
Zo d'Axa
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Questa notte non finirà mai. È un chiodo piantato nella fibra del sonno e questo letto sembra attaccato al soffitto e questa stanza pulsa come un ventre di melassa.

Lo sento parlare da solo, adesso. Deve essere di là nello studio, a lavorare. Ieri blaterava qualcosa a proposito di Stendhal e di un’opera da riscrivere. Da quando Lara se n’è andata, sembra uscito completamente fuori di testa. Lo trovo quasi ogni sera seduto sul letto di lei a lucidare con gli occhi la carta da parati e lo sento parlare con lei come se fosse ancora qui. Non è tanto Lara che gli manca, quanto il suo ruolo di padre che gli riempiva le giornate e lo stancava quel tanto che gli permetteva di dormire di notte. Lara è stata la sua medicina per non pensare. Sto con lui da vent’anni e di lui conosco quasi solo la sua fatica di vivere. Il grande scrittore è un coltivatore di ossessioni che si rivolta nella mota della sua accidia in attesa del macellatore. Il pianto greco di un passato che lo ha portato a fare di tutto, tranne che a scegliere di essere se stesso.

E io non sono nemmeno una di quelle donne che può dire “prima non era così” perché è sempre stato così, dai primi giorni che siamo entrati in questa casa e lui l’ha riempita di vischio per appiccicare le mie membra alle sue. Certo, di sogni, di progetti comuni ce ne sono stati all’inizio, ma sono durati il tempo di una fuga. Lui che scappava ragazzino dalla sua famiglia di marionette e io che fuggivo dai miei santi lavoratori. Da una cella all’altra, senza nemmeno l’ora d’aria.

Pure i primi anni ero convinta di riuscire trovare una chiave, la chiave per aprire il suo cuore, per guardare dentro di lui. Ero certa che dentro di lui ci fosse da qualche parte uno strumento per sbloccarlo e attivargli dentro l’interruttore della vita. Magari per realizzare quel talento che mi aveva conquistato i primi tempi, per fare in modo che lo spendesse veramente.

Forse mi sarebbe piaciuto vivere di luce riflessa, essere la donna del grande scrittore. Diventare una di quelle eroine oscure della letteratura e dell’arte, di quelle che si meritano le recensioni e le indagini postume di celebrazione. Di quelle che “dietro ad ogni grande uomo c’è sempre l’ombra di una grande donna”. Di quelle che avrebbero convinto tutti che “senza di me lui non sarebbe stato nessuno”. Ma lui è stato nessuno anche con me e nonostante me. Lui è rimasto nessuno, un bruscolo nell’occhio del mondo. Una scheggia sotto l’unghia della vita.

E cosa ho fatto io per liberarmene? Niente. Ho solo preteso e gli ho imposto di avere Lara e nient’altro – lui che non voleva figli, lui che aveva paura di un figlio. Ma adesso Lara vive a New York e io sono tornata a dibattermi in questa trappola per topi, con lui che non ha nemmeno più i miei occhi per vedere. Insieme a lui che si è scoperto definitivamente cieco per non vedersi.

Non ho fatto nient’altro in questi venti anni, se non lavorare e amare Lara e rincorrere lui nelle sue fantasie e lasciargli tutto il piacere di stare con lei – una figlia sua, non più mia. Nient’altro che cercare di aprire alla vita gli occhi di Lara, dopo che avevo inutilmente tentato per anni di aprire quelli di lui. E, mio Dio, se ricordo quelle interminabili giornate passate ad aspettarlo! Aspettare che desse un qualsiasi segno di risveglio – un segno di vita – e che portasse me e Lara fuori da questa casa, da qualche altra parte. Da qualsiasi altra parte.

A ben guardare, isolati segni di risveglio del “satiro addormentato” ci sono stati. Ma alla fine si sono rivelati per quello che veramente erano, accessi di disperazione che magari un altro avrebbe tradotto in un bel suicidio silenzioso. Una dignitosa partenza in punta di piedi da questa terra matrigna.

Come quella volta a Bangkok, quando, al rientro nel nostro albergo, intravidi una bambina lacera che dormiva sotto un ponte e che a me sembrò morta. Una volta in camera, gli confessai quell’atroce dubbio e l’angoscia che non mi faceva respirare. Lui uscì da solo nella notte a cercarla e sparì per ore, facendomi dannare di paura e di colpa, ormai certa che l’avessero aggredito o rapito o che fosse scivolato nella palude dietro l’albergo. E invece, a mattino inoltrato, quando avevo già fatto chiamare la gendarmeria, lui rientrò con la febbre negli occhi e mi disse che era rimasto lì – per ore – poco distante dal luogo dove era accucciata quella bambina, a sorvegliarla. Fermo, senza muovere un dito, intorpidito e fulminato dall’orrido della situazione. Reso esanime dal senso di colpa di non riuscire a decidersi ad accoglierla tra le braccia e portarla via da quella discarica. Paralizzato dal dubbio, fino a quando, dopo le prime luci dell’alba, la bambina si era svegliata e si era allontanata tranquillamente per cominciare un’altra giornata di ordinaria disperazione.

Un uomo che si lasciava scorticare a sangue la pelle dalla realtà, senza opporre resistenza. Questo era lui. Un uomo che a poco a poco mi ha espulso definitivamente dal suo tempo, dal groviglio della sua esistenza. Mi ha consegnato mani e piedi legati all’aguzzino della mia vita, il lavoro. Mi ha guardato da lontano tirare avanti ogni giorno come un mulo. Non solo per sbarcare il lunario, ma per costruire una sicurezza anche per lui, quel minimo di futuro che lui ha sempre rifiutato. E magari dannarsi l’anima per trovargli amici fatti su misura – che lui potesse iniziare ai suoi grotteschi cenacoli, puntualmente falliti.

E poi, dopo la nascita di Lara, quando lui ha cominciato a guardare se stesso e il mondo non più dentro di me – come in uno specchio che gli rimandava un’immagine rassicurante – ma attraverso di me, come se io fossi trasparente, in modo da non vedermi più – solo allora ho provato a fuggire. Sono riuscita ad allentare le funi che mi legavano a questa casa, a questa contenzione, alla sua perenne insoddisfazione, al suo pensare di essere altro senza mai volerlo. Ho vissuto la mia breve stagione di libertà – quella che lui bollava come “inevitabile parentesi bovaristica” – e per un momento ho anche creduto di essere capace di andare via da qui, via da lui per sempre. Ma lui, forse per la prima e ultima volta nella sua vita, ha reagito duramente e, continuando a guardare attraverso di me come se non esistessi come quando ci si china a raccogliere distrattamente un oggetto caduto di tasca – ha allungato bruscamente un braccio e mi ha tirato di nuovo dentro per i capelli.

È stato comunque un periodo eroico quello, di accelerazioni all’impazzata e di tempie pulsanti. È stato il tempo della mia fuga rossa d’affanno. Avevo cominciato a guardare davanti a me, finalmente, e lui di rimando aveva preso a cancellare la parola, sostituendola con messaggi frettolosamente vergati su tutte le superfici. Ritagli di giornale, scontrini della spesa, lasciati in giro dappertutto.

“Spero che incontri l’uomo dei tuoi sogni e ti faccia morire lentamente”, mi scrisse una volta su un post-it attaccato al frigorifero che scoprii al mio rientro da un viaggio che avevo fatto da sola. E più sotto, su un ritaglio di giornale attaccato con lo scotch, “buon divertimento dall’inferno”. Lui non era in casa quella sera e nemmeno Lara, che all’epoca aveva sei anni. Improvvisamente rividi la bambina di Bangkok assopita sotto il ponte e vidi lui e Lara, entrambi all’angolo di una strada – laceri e smarriti – a chiedere l’elemosina ai passanti e mi sentii morire. Ma in serata rientrarono entrambi. Lara corse ad abbracciarmi le gambe e lui filò diritto nello studio senza guardarmi.

La notte successiva fu epocale, in tutti i sensi e con tutti i sensi. Da mesi non ci toccavamo e lui entrò nella stanza al buio, mentre ero già a letto semiaddormentata, mi chiuse la bocca con una mano e mi legò i polsi con una cinghia alla testiera del letto.

Una calda notte di fine agosto dell’ultimo anno del secondo millennio, lui entrò e colse il mio battito. Inabissò e disciolse il mio respiro. Sfibrò e innervò ogni suo nervo in ogni mio nervo. Annientò e risorse la mia carne. Violò e consacrò la mia anima. Sgominò e sgomentò il mio corpo legato e finalmente libero di volare. Corpo inerme e armato di paura. Corpo aperto sulla croce delle sue mani. In morte vivo. Nessuno sa di quanta morte può morire un corpo mortale.

Piuma nel vuoto di Dio, per tre volte annegai quella notte. E negai all’alba la luce del giorno, serrando le ciglia del cuore. Avevo incontrato lui per la prima volta e niente era più come prima.

I giorni e le notti che seguirono alimentarono l’illusione che la mia fuga l’avesse riportato a me. Parole come lampi e quella luce accesa negli occhi abbagliarono la mia deriva da me stessa. Verso un luogo dentro questa casa ma lontano da questa casa. In questa vita ma fuori da questa vita. Signora assoluta del mio nulla. Dominata per dominarlo. Negata per affermarlo e affermarmi. Perduta e decisa a perdermi per ritrovarmi. Penetrare il suo mistero e vederlo, finalmente dentro, come era veramente fatto. Non più maledetto riverbero sull’acqua. Non più pelle di schiuma senza volto.

Eppure non mi ci volle molto per capire che quella che per me era l’unica vita possibile, per lui era invece solo un gioco. L’ennesima ossessione da coltivare per rubare tempo alla morte. Così anche le mie illusioni di una doppia liberazione si esaurivano mentre quella luce corrusca nei suoi occhi si spegneva poco a poco nel riflesso opaco dei giorni.

Quanto tempo ci vorrà perché io mi dimentichi veramente di tutto? Quante volte ancora dovrò uscire al mattino per andare a lavorare nella speranza – puntualmente delusa alla sera – che lui si sia dissolto nella nebbia di un autunno precoce?

Ma adesso basta pensare. Basta rimasticare il bolo di quello che è stato. Mi sento sfinita, le ossa rotte. Forse riuscirò a dormire un po’, nonostante tutto. E domani gli parlerò di nuovo e lui mi ascolterà muto, guardando attraverso di me come sempre. Se solo il sonno venisse.

Dimmi cosa stai sognando, descrivimi cosa vedi, mi dice Lara seduta sul letto al mio fianco. E io vedo il buio sciogliersi come pianto nei miei occhi. Una donna entra nella stanza che ora è il grande mare dei veli d’acqua. Ha un velo di acqua scura sul volto come un lungo velo da sposa ricamato con i capelli degli annegati nel grande mare dei veli d’acqua. Ci indica con la mano uno per uno e all’indice ha un anello con un occhio di bambina con lunghe ciglia che ci guarda dietro un velo di lacrime uno per uno mentre scende sui nostri volti un velo d’acqua scura che si apre lento nel grande mare di veli d’acqua come pianto di annegati nei nostri occhi. Il mondo piange il suo mare perduto mentre tutta l’acqua rifluisce in un punto lontano tra gli occhi del sogno.

Dimmi cosa stai sognando, descrivimi cosa vedi, mormora una voce bassa dentro il sonno. Lui è qui adesso, vicino al letto e respira forte. Si abbassa verso di me e il suo profilo nella penombra si fa netto di nero. Resta fermo a guardarmi e io chiudo gli occhi. Non un movimento, non un respiro. Solo il pallido calore della sua mano sul mio braccio. Poi uno strappo improvviso che lacera l’aria, le coltri gettate di lato e la sua mano schiacciata sulle mie labbra. Sento che sta per accadere di nuovo e il déjà vu mi paralizza. Non riesco a muovermi. Voglio alzarmi andare via liberarmi da quella stretta sulla mia bocca ma non posso.

Tutto cade in me dentro un battito di palpebre e lui mi lega dietro il collo un bavaglio – una sciarpa forse. E i miei polsi sono chiusi nella stretta di una cintura e le mie braccia sollevate in alto e legate all’altezza della spalliera e le mie dita stringono l’ottone freddo e la testa mi gira e la gola mi si graffia in un lamento non mio. Fa freddo al buio, pure i pori della mia pelle sono irrealmente aperti e mentre irrealmente aspetto quella caduta nel vuoto che ricordo appena, la mente tenta disperatamente di ristabilire i legittimi percorsi del desiderio e si rifiuta di credere che la salivazione è già azzerata e che gli umori compressi da fibre e muscoli già traboccano fuori dagli incavi che dovrebbero contenerli e il mio corpo si scioglie nella vertigine dell’attesa e tutto intorno diventa lentamente velato d’acqua profonda.

Non so quanto tempo è passato. I miei occhi sono spalancati nell’oscurità e non vedo niente altro adesso, solo il mio altro corpo. Sono dentro di lui e non ho più corpo se non il mio corpo morto in vita. Nudo e bianco, che riemerge da queste acque grondando di se stesso e fluendo tra le sue mani che si bagnano nella mia stessa acqua e scendono dentro il mio profondo, sfiorando velo d’acqua dopo velo d’acqua e aprendolo di nuovo alle sue labbra. Da sempre e per sempre, il greto della mia anima si congiunge e si fonde con la riva del mio corpo morto che scorre lontano in vita quando la lingua del mare affonda dentro la mia ampolla e spilla gocce di brina dal mio cuore. I miei lombi si tendono in volo per non spezzarsi e l’onda scura che viene da lontano dentro di me si solleva alta a guardarci con l’occhio del dio e si precipita a sommergerci, annegando anima e corpo in forma d’acqua e si scontra contro il frangente della mia sete ritornando io stessa subito alta impazzita d’acqua a bere vorticando per un tempo che non so dire prima di precipitare in lui ancora una volta, acqua scura dentro acqua scura.
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