mercoledì 30 giugno 2010

Romanzo infinito / settima sequenza

Orbe di Dentro
La visione del sabba


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Quei s’attuffò, e tornò su convolto;
Ma i demon, che del ponte avean coverchio,
Gridar: Qui non ha luogo il Santo volto:
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio;
Però, se tu non vuoi de' nostri graffi,
Non far sovra la pegola soverchio.

(Inferno, Canto XXI – 47-51)
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Sentiamo il tuo fiato sfiorarci. Come l’eco di una preghiera, adorarci.

Di vertigine in abisso ti muovi, solcando le scie stellanti di una caduta all’indietro nel tempo. Di lume in membrana, respiri senz’aria, ondeggiando dai tendini contratti alle suture tra le cellule stanche.

Il volo sotto la pelle del tempo fende torrioni di alveoli e carne sgranata. Trapassa trame di sonno e battiti di morte. Rade orizzonti di vertebre e ventricoli serrati. Trabocca il liquor dalla pia madre dentro il midollo e l’apnea si scioglie nel brivido della discesa. La sistole impazzita increspa linee vermiglie di sangue e la risacca schiude papille umide di sale. Arde allora più forte il ricordo sotto la cenere del sonno e brucia come ghiaccio in mezzo agli occhi. Occhi senza palpebre è la tua giovane pazzia. Aperti per sempre abbagliati dal sole in picchiata dentro la casa di vetro senza porte.

Sei sveglia ancora una volta e le tue labbra tremano parole.


Con gli occhi spalancati scivolo nel letto disfatto al suo fianco, ma senza toccarlo. Continuo a sognare senza dormire. A chiedermi se è giorno o notte. A rovesciare le mani contro il soffitto, così vicino. A traguardare il suo sonno stupido e stupito. Il volto riverso sul cuscino e la bocca spalancata come morto. L’aureola dei capelli scolpita intorno alla testa di un santo dopo il martirio.

Il martirio di quella notte. Il ricordo brucia come ghiaccio sulla fronte. Il tuo martirio senza santificazione. Lui è lontano e non sa e non vede. Tu sei sola, ai piedi di una scala. Stai salendo i gradini. Uno ad uno, nell’oscurità.

Ti senti come se fossi già morta. Una morta caduta su questi gradini. L’angoscia ti mangia lo stomaco ma devi salire ancora. Fino in cima alla scala. Fino alla porta di ferro. Aprirla e trovare la voce per chiedere aiuto.

La salvezza è oltre quella porta. Qualcuno ti aiuterà. Qualcuno sentirà la tua voce. Ma i tuoi piedi sono torpidi e pesanti e tutt’intorno è nero come fuliggine nera e il dolore è rosso animale rabbioso rinchiuso dentro le viscere offese. Grida il tuo nome che non ricordi. Ti chiama alla resa e all’abbandono su questa scala sbrecciata.

Sto salendo un gradino dopo l’altro. Lentamente, meccanicamente, appoggiando entrambe le mani a destra. Sotto i polpastrelli un muro liscio e freddo come la pelle dell’iguana. Come la bolla sottile e tesa della mia coscienza che può rompersi da un momento all’altro e rigettarmi indietro nel gorgo senza volto che mi insegue e che sento ringhiare dietro di me.

Lara, piccola Lara, crisalide impastata di nervi e paura, fermati. Ascolta. Dietro di te non c’è nessuno. Solo la tua ombra che galleggia a corpo morto in mare aperto. Sei pronta ad affondare pregando?

Lontano sopra di me qualcosa gocciola. Forse dietro la porta c’è un acquaio con i piatti dentro e un rubinetto con il becco di ceramica allentato. Le gocce cadono nell’acqua cadenzate. Una ad una, una goccia dopo l’altra. Un gradino dopo l’altro, una goccia dopo l’altra. E poi un gradino e un altro ancora. Un’altra goccia e un’altra ancora. Una goccia sempre la stessa che torna a cadere quando invece dovrebbe essere già acqua morta nell’acqua dell’acquaio.

Quella goccia maledetta che non arriva a bagnare la tua pelle alida. Si gonfia lenta e lucida spingendosi fuori dal foro di gomma e poi cade esplodendo nella tua testa. Scocca nel fondo del mondo, freccia infissa nell’aria con la sua sottile ansa di acqua. Si infrange in mille gocce di luce contro la scintilla del buio. Sempre più in fondo, dentro l’alveo che ti ha generato, là dove gli elementi si fondono nella polvere, senza possibilità di bere una sola goccia.

Ti prego, una goccia sola per nutrire il mio arido cuore arso che ha sete di quella goccia che non cadrà mai dentro di me.

Eppure il cuore di sabbia è ancora nel tuo petto. Falsamente al suo posto. Lo senti battere cupo da molto lontano. La schiena è bagnata e devi avere la febbre. Ora la tua ombra è un gorgo di braccia e bocche che vuole afferrarti e spremere dalle tue membra il succo di quella goccia che non cadrà mai dentro di te. Affrettati a salire, Lara.

Forse adesso salgo ancora un gradino e le mie dita trovano un interruttore sul muro. Una luce che si accende e scioglie le ombre della fuga. E illumina il volto sorridente di mio padre che mi tiene stretta al petto sul divano di vimini nella terrazza della casa sulla spiaggia, quando avevo sei anni e avevo deciso di non crescere più.

Lara, scricciolo senza piume che sorride strizzando gli occhi azzurri in faccia al sole, perché non sei con tuo padre adesso? Solo lui può salvarti da te stessa. Lo sapevi già prima di andartene. Non hai voluto credergli.

Ma l’interruttore non c’è e i gradini non finiscono mai. Allora la luce può essere dall’altra parte della scala. Perché non ci ho pensato prima? Allungo il braccio e faccio un passo verso sinistra. Mi sposto ancora a tentoni di due passi. La mia mano sfiora l’altro muro e di colpo la goccia smette di cadere lontano e l’oscurità si fa di velluto. Allora mi saetta di nuovo in mente l’immagine sfocata di una piccola porta di ferro, bassa in cima alla scala, con la maniglia segnata dalla ruggine.

Devo andare avanti ad ogni costo. In alto verso, quella porta. Il respiro mi graffia i polmoni ad ogni passo, ma devo salire ancora. Mi trascino verso l’alto non so come e salgo altri due gradini, fino a quando nel buio qualcosa di viscido mi cade sulla faccia. Una lanugine fredda mi si attacca alle labbra e al naso. La respiro dentro le narici e sento la pelle delle braccia accapponarsi e grido di sorpresa e ribrezzo. Ma non odo la mia voce. Allora urlo di nuovo, espellendo tutta l’aria dai polmoni, ma sento solo la gola strozzarsi in un fiotto d’aria.

Le labbra brulle battono a vuoto. Non riesco ad articolare alcun suono. Non posso gridare. La mia laringe spreme solo gorgoglii indistinti. Come fiocchi di vetro. Ho perso la voce e sono quasi nuda. Inchiodata alla parete, realizzo di avere addosso solo la camicia. Sfioro le mie gambe nude e sento sulle dita una colla tiepida. Sangue. Sto perdendo sangue. Allora mi sento morire e posso solo morire ora, su questa scala d’inferno. Chiudo gli occhi e abbraccio il buio quasi con sollievo. E finalmente piango. In silenzio, senza il conforto del lamento.

Vieni, corri da me piccola Lara. Vieni tra le mie braccia a piangere le mille pene che senti salire dentro e non avrai più paura. Un giorno anche tu ti perdonerai, come io ti ho già perdonato. E non fuggirai più in quell’altro mondo. Perché io non ti lascerò più andare via.

La tenebra intorno a me è tanto fitta che quando riapro gli occhi vedo solo pece e per un momento mi sembra di essere anche cieca e lo stomaco mi abbaia un morso di orrore. Poi, sollevando una mano sul viso, mi balena davanti agli occhi una forma guizzante e incerta, come una macchia grigia nella notte. Passo ancora velocemente la mano davanti agli occhi e la forma si staglia ancora una volta nel buio. Solo allora sfioro con le dita le palpebre, per toccare la verità delle pupille.

Grazie al tuo Dio non puoi parlare. Non puoi chiedere aiuto. Ma almeno puoi vedere. Ti ha fatto grazia della vista, il tuo Dio assente. Non contare più su di Lui e continua a salire.

Una voce dentro mi dice che devo muovermi subito, adesso. Devo riprendere la salita di questa scala senza fine, prima che l’orrore senza nome guadagni un volto alle mie spalle. Ma non posso muovere un solo passo, perché proprio adesso mi sta succedendo ancora. Quella sensazione di freddo urticante al centro della fronte, come un occhio di ghiaccio. Poi qualcosa che si strappa piano in fondo alla testa. Sembra il rumore di una porta che si apre dietro gli occhi. E vedo. Vedo scorrere le immagini come su uno schermo acceso.
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martedì 22 giugno 2010

Quello che (non) dico: specie di lettera d’amore per ragazza già fidanzata

Ma io invece dico che sarebbe molto meglio se prendessimo e ce ne andassimo a scopare, mentre il tuo ragazzo sul palco continua a fare pessime figure suonando un basso da quattro soldi che tra l'altro ha un suono a dir poco imbarazzante, invece di starcene qui a proseguire questa messa in scena della chiacchiera di avvicinamento, con te che parli sempre e troppo e io che non parlo mai se non per monosillabi gutturali tipo ah e oh e mmm e per dirla tutta nemmeno ti ascolto, cioè nemmeno presto attenzione a quello che dici, tipo il tuo prossimo viaggio a New York e la tua coinquilina cattolica che va in chiesa la domenica mattina e il gattino pulcioso che sei andata a prendere dall’altra parte della città riportandolo a casa in motorino dentro la borsetta, e come vedi, a dispetto del mio disinteresse, sono fin troppo attento a quello che dici, se pensi che a quello che dici sto dedicando un due-tre per cento di tutta la mia capacità di attenzione, perché la restante parte delle mie facoltà cognitive è sparata nello spazio a immaginare certe scene che sarebbe meglio si realizzassero all’istante, e la Scena Madre di tutte queste scene vede noi due che ci alziamo da questa panca lercia e tagliamo in due il piazzale polveroso pieno di merde di cani e bicchieri di plastica che potrebbero risalire al paleozoico e ci inerpichiamo su per la salita che porta alle casupole dei punkabbestia, lassù oltre il muro di cinta, non senza aver fatto ciao ciao al tuo ragazzo che si crede fichissimo, su quel palco, si crede troppo fico lui e il suo gruppo di – cosa? – post-punk, ecco, un cosiddetto gruppo post-punk che fa parte della cosiddetta scena post-punk, e adesso che il post-punk e relativa scena sono morti da venticinque anni capirai l’entità dell’abbaglio di cui il tuo povero ragazzo è vittima nel continuare a suonare quelle quattro corde arrugginite col plettro del bassista degli Splatterpink – pace all’anima loro – e quello che ne viene fuori è un suono così povero che mi fa solo pena, solo pena e nient’altro, ma in fin dei conti non mi importa nulla, davvero, perché quello che dico mentre tu accendi una sigaretta dopo l’altra, quello che dico io mentre guardo di sguincio la forma tenerissima delle tue tette di marshmallows – perché non appena ti guardo negli occhi e/o ti fisso le labbra piene di orsetti Haribo ecco che tu giri lo sguardo da un’altra parte, e allora praticamente mi costringi a guardarti nello scollo del vestitino – è che dovremmo prendere e alzarci e attraversare la piazzola sporca da millenni e arrivare all’inizio della stradina ricoperta dalle erbacce, e muovere un passo dopo l’altro sulle scale sgretolate e anch’esse invase da questa giungla rasoterra, lassù per la collinetta, dove tu e le tue scarpette da signorina chic – che guarda alla Grande Mela non disdegnando affatto il Sol Levante, da questo punto privilegiato della strada consolare Prenestina – tu e le tue scarpette troverete non poche difficoltà nel mantenere l’equilibrio, e allora mi tenderai il braccio che io afferrerò con piacere cardiaco, e poi ti cingerò la vita, e nel frattempo la frequenza del tremito della mia carne in mezzo alle tasche dei pantaloni aumenterà, aumenterà quando sentirò nel palmo della mano sinistra la carne morbida del tuo fianco, tutto questo mentre il tuo ragazzo migliora la performance perché suona più incazzato e dunque più autenticamente punk, pieno di rancore per come stanno andando le cose nel momento in cui ci ha visto alzarci e dirigerci verso l’inizio della scalinata sepolta fra gli sterpi, e probabilmente l’ultima cosa che ha visto è il tuo vestitino modello tovaglia da pic-nic a quadri rossi e bianchi che fa una specie di onda proprio quando tu rischi di cadere, e riesci ad aggrapparti subito a me, dopodiché per lui, per il tuo ragazzo, siamo solo l’immagine di due persone di spalle che entrano nel buio più fitto oltre l’ultimo lampione a metà delle scale sbrecciate, anche se per noi il buio non è così fitto, perché c’è questa luce diffusa e stranissima che getta un velo bluastro su ogni cosa, una luce che non si sa da dove viene e che per questo deve necessariamente provenire dall’ultima stella viva dell’universo lontano e profondissimo e cavo, ma intanto noi abbiamo terminato la risalita della collinetta e adesso siamo lassù, lungo il sentiero che costeggia i rifugi dei tipi di questo posto, sul muro di cinta, e camminiamo ormai avvinghiati e i nostri passi croccanti sopra i rametti e la ghiaia e i pezzetti di vegetazione morta hanno un volume di gran lunga più imponente dell’impianto del palco, che adesso è lontano anni luce e fa solo un rumore indistinto e nebuloso e il tuo ragazzo sta terminando quella farsa ridicola dell’assolo in piena distorsione a metà di My Last Fuckin’ Me – che titolo del cazzo, cioè – e quindi, davvero, tesoro, io dico che dovremmo alzarci da questa panca rovinata e levarci dalle scatole e andarcene lassù a scopare in mezzo ai rovi, col tuo vestitino modello tovaglia da pic-nic a quadretti bianchi e rossi appeso a un ramo qualsiasi, nella notte blu notte che sa di erba tagliata e azoto e polvere e Goleador alla frutta.
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lunedì 21 giugno 2010

Roberto Saviano, l’annosa questione, l’iconizzazione. Alcune riflessioni molto marginali tagliate con l’accetta

È degli ultimi periodi la questione Saviano-Gomorra in relazione a eventuali detrattori e inviti a lasciare la scuderia Mondadori per i motivi che riguardano quella che è passata alla storia più attuale della Repubblica delle Lettere come la “annosa questione”. Mi riservo di fare poche riflessioni ai margini di queste polemiche.

Inizierò dall’annosa questione: uno scrittore che con la sua opera vada a combattere il sistema di valori oggi denominato “berlusconismo”; uno scrittore che faccia scrittura civile, che apra la consapevolezza all’interpretazione del mondo per auspicare, attraverso la propria opera, la trasformazione dello stesso; uno scrittore il cui valore si elevi ben oltre il valore artistico di quanto scrive e vada a incarnarsi invece in una trasmissione di pensiero che implichi il “fare”, il “movimento”, la “presa di coscienza” – può uno scrittore del genere pubblicare per la casa editrice di proprietà del Presidente del Consiglio? No, no di certo, no che non può. O meglio, ci si trova di fronte a un clamoroso paradosso. E questo per ragioni così semplici da essere sconcertanti: Silvio B. incarna la colonizzazione dell’umano per mezzo di un’ignoranza talmente narcisistica da essere onnicomprensiva; Silvio B. è il leader della coalizione di centro-destra in Italia; Silvio B. sta alla cultura (qualsiasi cosa significhi “cultura”) come le gemelle Kessler stanno alle gemelle di Shining, o come Apicella sta al punk; Silvio B. è il punto di fuga di un conflitto di interessi che rende questa nazione vittima di una dittatura mediatica strisciante e malcelata, e questo conflitto di interessi si innesca nella compenetrazione oscura fra politica e mondo editoriale; Silvio B. ha un passato piduista e un presente stracolmo di rinvii a giudizio (spesso archiviati) per rapporti con il mondo mafioso e/o camorrista; Silvio B. inneggia alla più bieca stupidità; Silvio B. propugna un mondo di Veline e Amici; Silvio B. è l’allegoria vivente del processo di reificazione mercantilistica della cultura e/o dell’editoria, Silvio B. è andato in giro con una bandana bianca dopo essersi trapiantato i capelli. Eccetera eccetera eccetera.

Ma basterebbe solo la seguente osservazione per comprendere l’entità del paradosso annoso: Silvio B. ha detto che adesso la camorra è famosa per colpa di Saviano.

E dunque, circoscriviamo la domanda: ha senso che Gomorra di Roberto Saviano sia stato pubblicato da Mondadori? No, non ha senso. Come può non aver senso il fatto che molti libri di Genna siano stati pubblicati da Mondadori (e che d’ora in poi saranno pubblicati da Einaudi Stile Libero), e ancor meno senso ha il fatto che la stessa collana Strade Blu ha acquisito i diritti di traduzione e pubblicazione in Italia dell’opera omnia di Ernesto Che Guevara (prima in mano a Feltrinelli – anzi no, Feltrinelli pubblicava Che Guevara in buona coscienza senza devolvere nulla a eventuali detentori dei diritti d’autore [vox populi]), né hanno senso i libri dei Wu Ming per Einaudi. E io credo che anche un tipo schivo come Chuck Palahniuk debba essere informato su chi sia il suo editore in Italia, e così Dave Eggers, e Ohran Pamuk. Anche Erri De Luca ha pubblicato qualche titolo per il gruppo Mondadori, e Valerio Evangelisti. E Moresco. E Gratteri. (E D’Alema? Vogliamo parlare di D’Alema pubblicato da Berlusconi? Ok: D’Alema ha procurato ben altri problemi, lasciamolo stare.) Mi sa che resterebbero solo Bruno Vespa e Fabio Volo.

Quindi: il paradosso Saviano-Gomorra per Mondadori apre scenari che definire assurdi sarebbe a dir poco ingenuo. L’annosa questione è una questione rizomatica. Un rompicapo. La soluzione suggerita dai Wu Ming (il sistema va combattuto dall’interno non per una questione di prassi metodologica o di velleitarismo estetico, ma per una necessità di tipo semantico, e cioè: l’unico modo per combattere il sistema è combatterlo dall’interno perché non esiste un esterno al sistema) è buona, o quantomeno è pratica, e giustifica determinate scelte con un metodo che sta tra il realismo e il situazionismo, dove è realismo suonare al citofono della villa di Arcore, farsi aprire la porta e farsi accompagnare in salotto, ed è situazionismo abbassarsi i pantaloni e cacare sul divano – più o meno così. Ci sta, io da parte mia non ho nulla contro questa soluzione, per quel nulla che vale la mia posizione di semplice osservatore distratto. Anzi: è la soluzione che sotto molti aspetti recupera un senso a certe logiche editoriali che altrimenti non dovrebbero avere senso, come nell’elenco tremendamente parziale di cui sopra – e Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di dare un senso alle cose. Certo, può sembrare comodo stabilire un modus operandi della militanza che parta da un assunto interpretativo di tipo aprioristico – “non c’è nulla di esterno al sistema, è tutto interno ad esso” – ma insomma. Io la vedo bene. Anche se è ovvio che determinati autori, che amo, vorrei poterli leggere pubblicati da determinati editori, che amo ugualmente – ma qui siamo dalle parti di un narcisismo del lettore che è meglio tener fuori da questo casino.

Torniamo a Saviano, alla luce dell’annosa questione: gli è stato chiesto esplicitamente di abbandonare la Mondadori, sono nate discussioni accese in Rete, gruppi su facebook e chissà quante altre mozioni. Ora, questa può essere una richiesta legittima, se non fosse contingente e in qualche modo manchevole: a quanti autori bisognerebbe rivolgere la stessa proposta? Sarebbe un lavoro stremante, e soprattutto circoscritto, e privo di una visione allargata. Secondo me, questa visione allargata la si conquista nel momento in cui si cede il testimone del paradosso da Saviano (e Gratteri, e Genna, eccetera) a Berlusconi. Il Paradosso Autentico, il Problema Strutturale Profondo da cui si dipartono i singoli problemi di superficie, ciò che non torna nell’annosa questione, è la persona dell’editore, non la scuderia degli scrittori. E difatti, nella persona dell’editore questo paradosso si allarga a macchia d’olio, si sfibra fino a trasformarsi, migrando concetti e riferimenti dall’editoria alla politica, nel problema dei problemi della politica istituzionale: il conflitto di interessi. Quante questioni si risolverebbero nel non avere Saviano in Mondadori? Una, forse: quella di Saviano in Mondadori. Quante invece se ne risolverebbero nel non avere Berlusconi in Mondadori? Non so contarle. Ma il fatto è che non si può chiedere a Berlusconi di lasciare la Mondadori come si è fatto per Saviano, e qui cade ogni mia analisi.

All’ordine del giorno è anche la questione dei cosiddetti detrattori di Saviano. Un nome su tutti: Alessandro Dal Lago, e il suo libello Eroi di Carta, edito da ManifestoLibri. (No, Emilio Fede non merita che si spendano parole). Essenzialmente, si tratta di una critica alla trasformazione di Saviano in eroe, o icona, o modello, o simbolo. Cosa significa questa trasformazione? Attraversiamo un periodo di debolezza culturale generale, di deprivazione del senso, e in simili occasioni la coscienza collettiva richiede un’immagine iconica, una figura su cui attuare una sorta di transfert sociale, un simulacro che con la sua forma dia l’illusione di riempire il vuoto di sostanza. È vero, dunque: una nazione felice non ha bisogno di eroi. Ma questo è un periodo di profonda infelicità, e non è pertinente, in questa sede, indagare le molteplici concause di questa infelicità.

Io credo che in Italia non esista un modo intelligente, realmente partecipativo e militante, di costruire delle figure eroiche. Al contrario, mi sembra proprio l’iconizzazione di alcuni personaggi una causa scatenante del lassismo morale in cui naufraghiamo, laddove ci si sente autorizzati a delegare le problematiche e il compito di affrontarle all’eroe di turno, mettendosi in pace con la coscienza, dicendosi “Ok, adesso c’è questo qui, sto tranquillo, ci pensa lui, io non devo fare altro”. Se c’è un modo di ammazzare il messaggio di uno scrittore come Saviano, se esiste una forma di cristallizzazione iconica attraverso il quale far morire l’impegno sociale cui la sua denuncia dovrebbe dare la stura, è proprio beatificandolo. Dire che Saviano è un eroe del nostro tempo – quando la parola “eroe” non sia una semplice iperbole per rendere meglio il livello di sacrificio cui questa persona è giunta dopo la pubblicazione di Gomorra, immolando la normalità della propria vita quotidiana per testimoniare una denuncia gigantesca – dichiararlo icona e simbolo della lotta alla criminalità organizzata, significa marmorizzarlo, disinnescare gli effetti che dovrebbero prodursi dalla sua denuncia, sterilizzare la presa di coscienza contro le mafie in una presa di coscienza puramente cognitiva, priva di un affondo reale.

Chi è Roberto Saviano? Uno scrittore, un giornalista che ha avuto il coraggio di scrivere nomi e cognomi in un libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, una persona che in seguito è stata condannata a morte dalla camorra, e che per questo ha dovuto rinunciare a una vita normale. Un eroe? Può darsi, purché nel definirlo eroe non gli deleghiamo la nostra stessa presa di coscienza, purché non ci basti il suo essere eroe, purché stiamo attenti alla sostanza del Saviano-scrittore-per-bisognosi-di-messaggi e non alla forma del Saviano-icona-per-bisognosi-di-eroi. Altrimenti, cadremo ora e sempre nel tranello della vuota rappresentazione mediatica, e Gomorra rimarrà solo un best-seller, alimentando le casse della Mondadori (ecco: è tutto interrelato, dunque – iconizzare Saviano rende anche più difficile sottrarlo all’annosa questione). D’altronde di magliette di Che Guevara è piena la terra.

Credo che la posizione di Dal Lago, in fin dei conti, sia questa. Credo che Dal Lago aggiunga molto alle riflessioni su Saviano, non togliendo nulla, alimentando semmai la discussione aperta circa il valore della scrittura civile, con tutte le possibili implicazioni del caso. Io ci sto: e voi?

(Ah, certo: adesso mi direte anche di Daniele Sepe e del suo becero rap anti-Saviano. E cosa posso dirvi: enorme delusione verso un buon musicista, sconcerto per un testo che definire cafone sarebbe un complimento, ghiaccio nel sangue per la superficialità di un approccio che prosegue la terrificante linea ideale dei neomelodici che inneggiano all’onore dei capiclan. Disgusto, parecchio. E poi il CD di Sepe pubblicato dal Manifesto, e qui si aprirebbero altre annose questioni, solo spostate di baricentro, e allora vaffanculo – ditemi voi se si può vivere in mezzo a questi cortocircuiti.)
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sabato 19 giugno 2010

Cuore di Cedro

Prima.

Fu una sera di giugno che pensai al freddo. A giugno l'inverno è lontano, ma l'umido del temporale sale coi ricordi in cielo e compare una nebbia sinistra.

- Ghiaccioli al cedro ce n'è?... Non li vedo...
- Al cedro? Ma non li fanno più, da decenni - ride il baffo.
Protesto, spiego di averlo trovato altrove, da poco.
- Allora vai altrove - mi risponde. Una smorfia insolente gli attraversa gli zigomi.
- Sei vecchio e moderno,- gli sussurro - un connubio davvero poco libanese.
Mi guarda, stupito, non dice niente.
Alzo la voce.
- La sai un'altra cosa? Questo posto sgomita col buongusto.
Allora il baffo barista socchiude i due piccoli occhi appannati e s'alza in piedi: - Te l'ho già detto, mi sembra, puoi andare a ...
Lo interrompo, mi sporgo oltre il bancone e abbaio:
- Altrove ci vai te e il tuo schifo di bar. Conosci la strada.


Fu una giornata speciale, presi solo due schiaffi e un calcio all'inguine. Passai la serata con una borsa del ghiaccio tra le palle e pensai al freddo.
Pensai alle giornate che iniziano che ancora è notte, finiscono che è già notte, passati con il grasso dei motori tra le mani e i calendari Pirelli sui muri. Pensai al cuoio scintillante dei mesi invernali e agli onomastici in latex: san Jessica, san Moana, san Pamela. Pensai a come soffia caldo tra le dita il vapore arabico, bruno e zuccherino dalle bocche appena sveglie, strette nelle sciarpe, esperte nel suggerire a baristi maldisposti screpolate escursioni a quel paese. (Che non è il Libano, che non è in Arabia e che vive nell'immaginario popolare come un luogo sacrosanto.)

Seconda.

Ancora non albeggiava, nevicava.
La tapparella del bagno, alzata, lasciava specchiarsi un lampione così carico di neve che pareva in procinto di radersi. Dalle case giungeva il bagliore intermittente di riti pagani dimenticati nelle prese di corrente: oppure, come mia madre ancora fa, lasciati di proposito, penso a voler dare un'atmosfera natalizia agli incubi, in un oblio di campanelle e angioletti crepitanti, Sabba laico all'ombra di un russare sposato tanti anni fa.
Poteva pure essere così, ma il mio problema in quel momento era respingere l'arrampicarsi in gola di piccoli spruzzi amarissimi, grumose reliquie smoccicate di uno spuntino notturno poco salubre: Dòner Kebap e Sgnapa Trentina. Roba da Siori, preludio di conati violenti e condotte biliari in sciopero selvaggio. La neve, nel frattempo, continuava a tormentare tutto, lieve.
Montai in sella, misi il casco e accesi, feci scaldare il motore e partii lento, sondando lo spessore tra le ruote e l'asfalto, frenando di colpo per verificarne la scivolosità. Una ragazza bardata come un soldato crociato sfrecciò al mio fianco su uno Scarabeo e mi donò coraggio, con un'accelerata profonda partii per l'officina.

Terza.

Curva su curva, a ritroso e d'anticipo, lasciavo sulla neve una striscia lunga e regolare, un solco di bisturi rovente nella gelida pelle della provinciale per Colonnetta.
Uscendo dal paese una sciabolata di vento mi ruggì contro, la moto ebbe un sussulto ed io sgasai a testa bassa, strinsi i denti e ci trovai un coltello in mezzo: la campagna innevata divenne giungla oscura, i primi raggi di sole filtrarono da un cielo di scimmie e uccelli bizzarri. Accelerai e strinsi il bolide tra le cosce. Una leggera erezione fece capolino.

Immaginate una Mompracem subalpina e un corsaro urbano circondato da tigri dalle striature regolari e feroci, a lisca di pesce, pelosi parcheggi per disabili e mutilati.
Immaginate il poderoso insorgere della CENTAUROKAN 60: una fiammata nervosa che con urgenza squassa il silenzio di una nevicata, un rombo acido che espugna le distanze senza trovare ostacoli, se non una lastra di ghiaccio spessa come un guardrail ed un guardrail affilato come un rasoio. Fffffssssshhhhh...STUNC!
Immaginate di lanciarvi con una liana in una foresta impenetrabile, con la visiera del casco appannata dall' alito cattivo e un'erezione in corso.
Tarzan deve saperne qualcosa, visiera esclusa.


Quarta.

Tremavo tutto, un sisma sottozero. Lo spavento, il boato, il volo, le braccia spinose dei rovi che scoppiettano sulla giaccavento, il tonfo umido della propria carcassa in una piscina buia, senza materassini nè mojitos. Un liquame oleoso invase il casco, le narici, le orecchie, mentre minuscoli origami marroni sfilavano gajardi come majorettes tra la visiera e gli occhi spalancati. JJJ, aiuto.
Potevo solo sperare in un miracolo, potevo solo affidarmi al cielo, non c'era maniera di uscire da quella pozza di merda e ghiaccio da solo, e l'avvertita presenza della Centaurokan in fiamme a bordo vasca non migliorava le cose.
Avrei pianto, ma stavo annegando in una cloaca d'acque nere, un cratere colmo di feccia e disgorgante liquido dove il pianto non è ben visto, vige semmai l'abitudine a decomporsi con rassegnazione.

Preghiamo:

Oh Dio Onnipotente aiutami. Oh Dio, Dio mio, Dio di misericordia concedimi la tua stretta di mano santa. Dio di grazia e clemenza, Dio santo di splendore preséntati, stringimi la mano, diamoci del tu, parliamo da persone civili. Avanti, non essere timido, non mi rimane molto...Dio mio infinito, allunga quella madonna di mano...per favormpsf...perlamad...allungaa...perl...
...mpsffh...allungaaala.....mpsh...Dio Dio...phmff...prfhhp..Dio...

Il soliloquio che iniziò come una preghiera poteva terminare in una sola, unica e grande presa di coscienza trascendentale: l'urlo odioso e intercalabile di una bestemmia.
Ma al compiersi della prima sillaba la gola soffocò come un bidet intasato da un fiocco di raffia per guarnizioni.

Quinta.

Una ex cantante lirica di Beirut, rifugiata politica in Italia e barista a Poggio Scalo, vide la scena, smise di aspettare la corriera e intonò un'aria che in apnea giunse Vivaldiana, come un trillo rondìneo, ma più verosimilmente cacciò un urlo spaccavetri, uno squarcio a cantagola che fece smettere di nevicare e minò il cielo bigio.
Due contadini attorcigliati alle mogli balzarono giù dal letto.
Bebbe Alfonsi e Gentile Liguorio non si parlavano più, da anni: un contenzioso sul confine dei terreni rovinò un'antica amicizia ed incrinò pesantemente i rapporti di buon vicinato.
Ma quella mattina si ritrovarono fianco a fianco, come sui banchi di scuola, come sulla littorina per Passo Corese, dove si scambiavano santini peccaminosi e andavano al bagno a turno; si ritrovarono, con il segno del cuscino sul viso schizzato di liquido per batterie, le pantofole sprofondate nel fango, i sensi interrotti dal fetore della vasca di spurgo dell'officina. Si ritrovarono e mi salvarono.

Sesta.

Ero coperto di robaccia, lei mi baciò sulla fronte e s'inginocchiò ridente pregando Allah, mentre Bebbe e Gentile battevano le mani e si strizzavano i pigiami. Il lamento di un'ambulanza cominciò a snodarsi sulla provinciale.

Andò così, non la rividi mai più: partì per il Libano qualche giorno dopo per sposare un magnate dei gelati.
Da allora frugo nervoso nei congelatori dei bar alla ricerca del suo sapore lontano, scavo nelle miniere di ghiaccio, ravàno tra i calippo in cerca della pepita giallo scuro che mi anela il cuore.
Di rado la ritrovo, e allora penso al freddo e soffro, soffro, il sangue gela, il cuore s'inasprisce e va sempre a finir male.

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lunedì 14 giugno 2010

Qualcosa di relativamente importante

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Guarda: i palazzoni gialli, la volta della tangenziale che sembra contenere tutto, la cappa asfittica color sperma. Il sole si alza lento, non lo vedi, lo avverti, ne avverti l’ascesa a incendiare i contorni delle cose, lo sbiadire dell’aria, il giorno senza definizione. È ormai estate. Solo ieri sera i gelsomini ti davano il mal di testa. Quell’odore resinoso non è fatto per i nasi solitari. Il tuo è il più solitario dei nasi, si tengono compagnia fra loro solo gli organi gemellari del tuo corpo solo. Reni, polmoni, mano destra con mano sinistra e così i piedi, e gli occhi, le orecchie, i glutei. Ginocchia, gomiti. Narice con narice. Camminando sperso nella notte nauseante, i dialoghi del tuo corpo con se stesso, il monologo della tua mente cortocircuitata: vedi pozzanghere essiccate, escrementi fossili sotto la scarsa illuminazione pubblica, gruppuscoli sparsi di gente molto più giovane di te che sa meglio di te come risolvere l’incombenza di dover passare il tempo. L’arcata dentale superiore si stringe con forza su quella inferiore, piegano la curva mandibolare che emerge esternamente dall’ovale imperfetto del tuo viso appiattito. La pressa ossea, autistica, prefativa al tuffo salivare con cui inghiotti certi pensieri per seppellirteli nello stomaco, a marcire e consumarsi, a diluire una cena insoddisfacente. Pensieri che favoriscono la diuresi. Perché ti avviti su te stesso? Ti passi la punta della lingua sull’eruzione al palato, subito dietro i denti, è un’infezione che brucia, forse l’ipovitaminosi, forse il fumo, o il caffè. C’è uno strano silenzio.

Davanti a te il signore anziano, beato di anzianità, in camicia celeste a righine bianche, sentilo, senti l’odore pulito di sapone fresco, sentine la pelle spessa, esperta, consumata ma non avvizzita, sentine l’esperienza nella postura del corpo anziano, senti il tempo che si porta appresso, i capelli bianchi ingialliti, sottili e ben pettinati, sentine tutto l’orgoglio del vissuto trascorso. La perfezione dell’esperienza, epicurea. Tu cos’hai da insegnare ai sensi di chi ti sente? Poco, forse nulla. Ma nessuno ti sente, non dividi gli spazi con nessuno, non c’è nessuno che ti avverte. La tua pelle, acquista spessore solo grazie a una cosmesi privata, notturna, massaggi delicati con cui ti prendi cura di te stesso prima di lasciarti andare nel sonno. Al mattino non hai tempo, ti svegli tardi, già stanco nelle ossa. Adesso sei quasi sfinito, leggi l’oroscopo di un segno che non è il tuo. Sullo schermo centrale. Scenderai fra sei fermate. Il signore anziano inforca gli occhiali da anziano, la montatura dorata, legge Il Messaggero, quotidiano di Roma. Il sole continua ad alzarsi, l’universo è abitudinario da tempi indicibili. La routine del tempo maiuscolo cristallizzata in ogni manuale di scienze fisiche chimiche naturali. Alla fermata sale un signore indiano che zaffa di aglio e sudore aspro, e due ragazze, belle, colorate, con le cuffie alle orecchie, future assistenti socio-sanitarie precarie che si sbatteranno da un contratto a progetto all’altro. E tu, per allora?

Ma adesso: il getto di aria condizionata andrà ad indurirti i nervi del collo, mai più sedersi sotto il bocchettone, meglio scegliere il posto interno, sul corridoio. L’artificio del fresco si porta dietro ogni tipo di odore meccanico del mezzo, freni, consunzioni metalliche, plastiche bruciacchiate. Un odore di polvere e guaine sfritte, un odore secco, brutto, fastidioso. Ricorda in qualche modo l’odore pulviscolare dei temporali estivi sugli asfalti roventi e sporchi. L’altra settimana ne ha fatto uno molto forte, ai margini delle strade scorrevano queste fiumare lorde, grasse, bianche di una schiuma che sembrava detersivo e invece era merda. Si portavano dietro tutta la merda della città, giù per i tombini, nella rete fognaria antica, sepolta, a mescolare merda con merda, sporco urbano inerte e disavanzi intestinali del consesso sociale. Non pioveva da mesi.

Pensa alle cose, adesso. Alle cose. Qual è la cifra del tuo rapporto con le cose, le cose che non senti più. È la tesi che dovrebbe star dietro a tutta la Nausea di Sartre, che non hai letto, in realtà. Le cose, e la relazione con esse che va incrinandosi, finché non si riesce più a esperire un nesso esistentivo col mondo che circonda, come un albume, la percezione. Ecco come ti senti, pur nella confusione ineccepibile di una mancanza totale di riferimenti: slegato dal mondo fenomenico – dalle cose – isolato nel raggio di un campo percettivo pigro, minuscolo, il tuo universo personale che regredisce a dimensioni irrilevanti. Potresti ben dire che guardi senza vedere, che senti senza ascoltare. Eccetera eccetera eccetera. Si è creato un distacco biologico fra il tuo corpo, i sensi con cui esperisci ciò che ad esso è esterno, e quell’esternità. Ti vedi come una goccia d’acqua su una superficie superidrofoba, costretto a non mescolarti mai, fattore di coalescenza. La realtà è quella parte della tua vita che non senti più, quella sezione semantica del tempo che attraversi impermeabile. Chiamala “nausea”, “noia”, pigrizia. Chiamala come vuoi: è solo un processo di allontanamento dalla Natura, una deriva lentissima. E sei tu. Da te è impossibile allontanarti – è impossibile. Lo so che lo sai. Lo vedo da come muovi lo sguardo dietro quei Ray Ban fuori moda, da come ti assicuri di avere le chiavi di casa in tasca, dal modo in cui guardi quella ragazza fissandone il riflesso sul vetro sporco. Non ci sono soluzioni, e forse non è un problema, è semplicemente arretrato tutto, si è asciugato, svaporando chissà dove, lasciandoti da solo sullo scoglio brullo del tuo io personale. Naufrago. A ciascuno il suo, dici. Ma in fin dei conti la relatività del tutto, in queste condizioni, è la prima ermeneutica che salta gambe all’aria, inservibile, puoi giusto tirarla in ballo quando non te la senti di approfondire, come stai facendo adesso. Hai tutto il diritto di restare superficiale sulle questioni che ti riguardano nel profondo. Ma ti avviso: se sei nella condizione di affermare “non c’è nient’altro e nessun altro”, allora non puoi tirare in ballo nessun termine di paragone, neppure in maniera immaginativa. È tutto il codice del riconoscimento che si è inceppato, non so se mi spiego.

Senti l’indiano che sa di aglio e sudore, sentilo come in realtà nasconde un aroma nascosto e nauseante di budella, sentilo bene. Torna indietro alle vacanze di Natale di quando eri piccolo, l’uccisione del maiale, tutti i parenti intorno al tavolo vecchio basso e smaltato di verde dei tuoi nonni materni, tutti a tagliuzzare la carne del maiale scannato il giorno prima in pezzetti piccoli così, pezzetti che poi finivano dentro le budella dello stesso maiale, che si riconvertiva in salsicce e quant’altro. (La reincarnazione da carne viva a carne morta, salata, speziata, insaccata, essiccata – pensa al karma dei porci, pensaci. Ti viene da ridere.) Ricorda quell’odore caramelloso e acidulo, l’odore delle budella che stavano a ripulirsi dentro la bacinella azzurra vicino al balcone – la luce scialba dell’ultima settimana dell’anno che rimbalzava sulla neve indurita, il grembiule quadrettato azzurro di tua madre, il telegiornale in bianco e nero che tuo nonno chiamava “comunicato” – e dimmi se non è lo stesso odore che adesso indovini negli spostamenti d’aria che generano i movimenti di questo signore indiano. Sa di budella, no? È un buon paragone, “odore di budella”, potresti scriverlo in qualcuno dei racconti che inizi a fatica quando ti senti in qualche modo illuminato, allettato dall’idea di passare una serata davanti allo schermo del computer. Dici che scrivi. No, non lo dici: lo pensi fra te e te, è un augurio, una speranza, qualcosa che ti piacerebbe fare con dedizione, scrivere ogni giorno, anche cose inutili, tentativi che cestinerai il giorno dopo, mozziconi di racconti. Pensi alle cinquemila parole al giorno di Miller e ti viene la febbre. Alle cinque pagine di Cărtărescu: idem. Non trovi il tempo per scrivere nemmeno una cartella al giorno. Leonardo Bonetti che ti dice della “quinta riscrittura” di quello che sarà il suo prossimo romanzo, e quindi pensi alla prima, poi alla seconda, e alla terza, quarta e quinta riscrittura, e amplifichi inverosimilmente la sensazione di fatica estrema che sta dietro certe cose. Ritorna il numero cinque. Vai verso la Fiera. Adesso il sole brucia oltre il vetro, e da sopra arriva il getto dell’aria condizionata, il signore anziano davanti a te legge la pagina di cronaca – c’è un serial-killer, a quanto pare, hanno incrociato i dati di una decina di casi irrisolti e sembra che ci sia in giro un pazzo che periodicamente decide di alleggerire il pianeta – l’indiano aglio-sudore-budella si siede al posto lasciato libero dalla ragazza che fissavi nel riflesso del vetro che si prepara a scendere alla prossima.

Dopotutto pensi che l’esperienza non sia altro che un accumulare pregiudizi, nozioni marmorizzate, testarde, intimamente disoneste. Stai leggendo un manoscritto inedito per cui ti daranno la miseria di dieci euro, il romanzo di un signore che vorrebbe diventare uno scrittore pubblicato. Sul frontespizio, sotto il titolo, leggi che questo signore si è premurato di registrare l’opera alla SIAE. Scatta, il pregiudizio: sarà una schifezza? No, non così, non te lo chiedi: lo sai per certo, sarà roba per editori a pagamento pronti ad approfittare delle pulsioni narcisiste di questi signori, che ci cascheranno senza vergogna, e poi passeranno secoli a smazzare a parenti e amici le copie obbligatorie, centinaia, che avranno stampato come da contratto, sprecando carta, inchiostro, tecnologie, sprecando soldi che avrebbero investito meglio comprando libri buoni da leggere, e se proprio avevano nel sangue il cosiddetto demone della scrittura avrebbero potuto maturare uno stile, chissà, e scrivere qualcosa di decente su cui far ragionare uno come te, che legge manoscritti inediti nel tempo perso, e a cui danno dieci euro per ognuno di questi manoscritti che spesso ti mettono di cattivo umore dal momento che lo sai per certo che la cattiva scrittura è contagiosa, e visto che tu intendi scrivere non dovresti potertelo permettere, di leggere cose così brutte. Ecco perché non hai il tuo stile, stammi a sentire. Devi leggere, ancora, tanto, devi leggere tutti gli americani contemporanei, gli italiani che non hai letto, devi leggere Pasolini, Buzzati, Pavese, Moravia. Devi leggere, così stai solo perdendo tempo. Leggi poesie, non solo narrativa, leggi saggistica e approfondimenti socio-politici. Trova le storie, coltiva la fantasia, inventa i personaggi, chiunque è bravo a scrivere di sé, tutti scrivono di sé in mancanza di storie e di immaginazione. Il Sé è un baluardo, non si scappa – pensi – a meno che non sei bravo, bravo davvero, e la bravura può essere incentivata. Ma sappilo, che non sei meglio di nessun altro.

Sei nell’ingorgo. Tu, il signore anziano, l’indiano, la ragazza che deve ancora scendere. Siete nell’ingorgo, e non sai da quanto tempo. Poi ci sono tutti gli altri, quelli che stanno lì, al di là della tua capacità di percepirli o di connotarli in una qualche relazione con te, e in realtà nemmeno la ragazza, il signore anziano e l’indiano stanno in una qualche relazione con te, a parte il fatto che questi ultimi li hai notati, osservati, annusati. Per tutti gli altri, invece, non hai fatto altro che registrarne con la coda dell’occhio la presenza nebulosa, lo stare lì e basta. Sconosciuti: significa proprio questo – intersezioni nulle di insiemi diversi. Siete, tutti, nell’ingorgo. Il semaforo rotto, due vigili sudati che non stanno facendo esattamente le cose per bene. Agitano le palette, vorticano le braccia. Sembrano sul punto di perdere definitivamente il controllo. Ogni pensiero si riempie di bestemmie. Inizia la nenia stonata dei clacson, i motorini si infilano nelle strettoie fra le macchine, vanno sui marciapiedi per andare da nessuna parte. Osserva bene: questo è un angolo della civiltà che si è andata creando a colpi di rivoluzioni industriali e sociali. È Occidente: questo fiume deforme di lamiere surriscaldate, verniciate a polvere, queste macchine piene di disperazione che portano i propri padroni nelle mani di altri padroni, a timbrare badge aziendali con un ritardo dovuto a tutti gli ingorghi del mondo, accumulando bestemmie e rabbia sociale in completo d’ordinanza, maledicendo quello davanti che fa e sente e bestemmia esattamente alla stessa maniera. Per quanto potrà durare: non pensarci, non sta a te. Guarda fuori, il tipo-manager sulla Smart, lo vedi? Lui crede di poter andare dappertutto, ma basta una Punto sfasciata per bloccarlo. Come quella che ha davanti. Da lì non si muoverà per i prossimi dieci minuti, hai idea della massa di bestemmie che saliranno al cielo? Guardalo come urla dentro l’iPhone, guarda: le vene del collo ingrossate come lumache, la fronte madida di sudore e di gel per capelli che inizia a sciogliersi, il nodo della cravatta stringe come un cappio, si leva gli occhiali da sole, batte i pugni sul volante, sfriziona, suona il clacson, tira la testa indietro sui poggiatesta rinforzati, con un niente si sta rovinando la giornata che deve ancora iniziare, basta poco. Tienilo d’occhio. Non ci si muove: il ritmo frenetico della città.

Si va avanti a singhiozzi, anche sulla corsia preferenziale, dove dovreste scorrere regolarmente – tu, la ragazza che non riesce ancora a scendere, l’indiano aromatizzato al budello, l’anziano fresco di sapone buono e tutti gli altri esseri nebulizzati ai margini della tua percezione monca. È stata invasa pian piano, una conquista millimetrica, da una selva di moto, macchine grigie, SUV sproporzionati, utilitarie premoderne senza filtro antiparticolato né dispositivi di sicurezza passiva, auto elettriche. Ma non ci si muove più: là in fondo, guarda, un tram è rimasto bloccato in curva, non riesce a proseguire a meno di distruggere qualche fiancata di troppo, automobili parcheggiate in modo creativo, praticamente in mezzo alla corsia, le macchine normali ci passerebbero senza problemi, ma un tram ha bisogno di un raggio tutto suo. Non può proprio passarci: quella curva se la può scordare, è un tappo di metallo verde oliva che tiene imbottigliati senza pietà centinaia di disperati urbani, a imprecare in silenzio ognuno dentro il proprio abitacolo, fanno rimbalzare bestemmie grosse come cattedrali sui cruscotti lucenti, generano reverberi senza fine finché l’abitacolo non va in feedback, e così i cervelli, cervelli che impazziscono in pieno comfort Euro4, cervelli anneriti dallo stress, quasi morti, zone di lacerazioni, aneurismi potenziali. Si espande senza fine l’orgia di clacson, sirene di ambulanze bloccate, uno strascico denso di onde quadre, fastidiose, frequenze impastate isteriche. Il tutto è avvolto nella massa impalpabile delle polveri sottili, velenosissime, letali. Sicuro di non voler scendere alla prossima?

Succede in un attimo, quando l’immobilità è ormai perenne. Succede che tra la Punto sfasciata e la Smart si crea uno spazio infinitesimo: la Punto è avanzata di un niente, mentre il tipo sulla Smart, adesso in fase di ascolto della voce che proviene dall’altra parte dell’iPhone e continuando ad agitare le mani ai danni del volante, non ha schiacciato sul gas quel poco che bastava per mantenere la proporzione della distanza fra i paraurti dei due automezzi. Ecco allora che fra le due auto, nell’intercapedine vitale fra targa e targa, si inserisce, sbucato chissà da dove, questo motociclista. Una Triumph. Segui bene la scena, seguila, tieni d’occhio la situazione, perché potrebbe precipitare. La Triumph sta di traverso alle due auto, perpendicolare al senso di scorrimento di questo universo di pistoni e valvole che non scorre. Isola questa scena, restringi il colpo d’occhio, lascia scorrere la sinfonia storta dei clacson fuori sincrono, il tinnitus dell’universo. Il tipo sulla Smart è evidentemente contrariato dalla scelta del motociclista di penetrare lo spazio vuoto fra le due macchine. Ha un lampo negli occhi che dice tutto. Come se fosse proprio la Triumph a bloccargli la strada, come se potesse effettivamente andare da qualche parte – se il motociclista non avesse attuato questa decisione sconsiderata di invadere quel mezzo metro esiziale di asfalto – invece di restare lì ad abbrustolire e imprecare e maledire. E quindi maledice, impreca, bestemmia, scaraventa il cellulare sul sedile posteriore e affaccia la testa sudata e paonazza di rabbia metropolitana dal finestrino abbassato della sua auto. Urla qualcosa al motociclista, vedi i denti che luccicano e le gocce di saliva in controluce che partono come proiettili e poi si disfano nel nulla.

Di fianco a te c’è una signora che fa il Sudoku. Te ne accorgi solo ora. L’ha quasi finito, è una griglia di livello medio-alto. Guardi la signora, di profilo, e vedi un’immagine di serenità indiscutibile, la signora ha la pelle a dir poco perfetta, anche se potrebbe aver passato i cinquanta, la sua pelle è opaca e omogenea e naturale. Ha appena finito il Sudoku e ripone la rivista di giochi dentro la borsetta. Solo adesso si accorge dell’ingorgo in cui siete tutti paralizzati, e si mette a parlare fra sé e sé, dicendo cose come “non è possibile – questa città – ogni volta – non funziona mai nulla” e tutto il campionario di frasi adatte all’occasione. Poi vi incrociate lo sguardo, per un attimo, e tu sei praticamente costretto a fare quella mossa con gli occhi e la bocca che sta a significare che sei d’accordo, sì, ma che per quanto si possa essere d’accordo non è che si risolvano i problemi, anzi, e quindi tutt’al più si può condividere oltre al giudizio negativo su tutto ciò che “non funziona” anche questa particolare condizione di impotenza. Un giro di pensieri in una mossa di occhi e bocca accompagnata da una impercettibile scrollata di spalle. “Che possiamo farci”.

Adesso ritorna in esterna. Sempre i palazzoni gialli che contengono la massa del traffico immobilizzato, la lingua cementizia della tangenziale, i lampioni spenti. Eruzioni cancrenose della terra. Ogni cosa è rovente, il sole arde furioso in questa metà di mondo. E ancora i due a contendersi un posto migliore nel traffico senza movimento. Il motociclista ha deciso che il tipo sulla Smart ha parlato troppo, lo vedi da come si è girato verso di lui, dai movimenti a scatti della testa che sfidano senza tema la sua rabbia incondizionata di automobilista che non procede. La sua testa, la testa del motociclista, è avvolta dal casco, integrale anche se è estate, la sua testa dentro il casco fa su e giù per rispondere alle urla del tipo con la Smart, il suo cervello è protetto all’interno di due scatole craniche, di cui la più esterna a marca MomoDesign, imbottita. Non sai cosa stia dicendo, ma non ti è difficile intuirlo. Fa su e giù il casco che contiene la testa che contiene il sistema nervoso centrale, il sistema cerebellare. Sembra un cavaliere teutonico aggiornato ad oggi, un’ultimissima versione dotata di giubba con inserti protettivi in caso di caduta rovinosa, pantaloni nero lucido in tessuto tecnico con ginocchiere imbottite, stivali. E il casco. Pensa: il futuro è già adesso e non te ne sei accorto, il futuro arriva piombando nella paralisi, nel vuoto di progressione, è un presente stantio. Guarda attentamente cosa succede: il centauro, fra scatti di testa-casco ai limiti dell’epilessia, fa gesti eloquenti con le mani, invita spavaldamente il tipo sulla Smart a scendere, a scendere dall’auto, se ne ha il coraggio. L’altro continua a sbraitargli contro, ma è chiaro che adesso è in gioco un tipo di onore che possono capire solo loro due, un onore automobilistico, riguarda la conquista di segmenti d’asfalto, uno spazio vitale urbano. Quindi la portiera della Smart si apre, vedi lo scatto dell’automobilista nel tirare il freno a mano, noti un ulteriore e repentino ingrossamento delle vene sul collo. Il motociclista-cavaliere teutonico ha messo il cavalletto, è in piedi, sarà alto due metri, sei stupito. Intanto la ragazza alla guida della Punto sfasciata, davanti a loro, si perde tutta la scena perché sta usando lo specchietto retrovisore per darsi un po’ di rossetto. Si perde quindi anche il movimento furtivo, esatto, con cui il tipo in Smart, dopo aver aperto la portiera e tirato il freno a mano in un unico scatto nervoso, si china ad allungare il braccio sotto il sedile del passeggero per prelevare qualcosa. Guarda cos’è: un bastone, un bastone da anziano, da signore di mezz’età con problemi di deambulazione – o altro, fai tu. Il tipo scende definitivamente dalla Smart e impugna un bastone, che non è proprio come una mazza da baseball o un pezzo di tubo Innocenti o chissà cos’altro per colpire o intimorire un eventuale ostacolo umano, ma insomma. Anche un bastone ha il suo perché in certi casi, col puntale rinforzato in gomma e l’impugnatura ergonomica attaccata al bastone vero e proprio a formare un pericolosissimo angolo acuto. Cosa vuole fare il tipo con la Smart, fuori dalla Smart, munito di bastone, avvicinatosi al centauro in armatura tecnica? Fargli il culo, ecco cosa vuole. Concentrati sulla scena.

Lo schermo centrale si produce in pubblicità di agenzie viaggi. Quest’anno spingono la Turchia. La signora del Sudoku dice al cellulare: “Di’ a Claudio che faccio tardi, sono bloccata, non so cos’è successo, c’è un tram che non riesce a muoversi, mi sa, digli che faccio una mezz’ora di ritardo, intanto puoi chiamare l’avvocato che oggi chiudiamo la pratica di Scarselli”. Il signore anziano ha chiuso il giornale, lo poggia sulle gambe, vedi la prima pagina e ti cade l’occhio sul titolo in grassetto “Cellula umana replicata in laboratorio”. La ragazza in eterna attesa di scendere alla prossima, in piedi davanti alla porta centrale, prende del tabacco da una confezione in plastica gialla, decide di portarsi in anticipo arrotolandosi una sigaretta. Non sai perché ti ritorna in mente un giorno di tanti anni fa, in un paesino delle basse Marche con alcuni amici dell’università, a pochi chilometri dalla famosa e mistificata San Benedetto del Tronto. Sul punto panoramico: lo sguardo spalancato sulla vastità dell’Adriatico, la luce netta che illumina in maniera quasi carnale, tangibile, il bacino acqueo smisurato e la costa assaltata, la terra dove hanno avuto la meglio i costruttori, le seconde case al mare, gli ideali vacanzieri di persone mediamente prive di ideali. Il tratto della A14 in mezzo ai vigneti a capanna. Ricordi Mara, nella luce di maggio che cade a piombo, ripensi senza motivo apparente a Mara che dice: “Tutta questa contingenza. Che ne sarà di tutta questa contingenza”. Tu non sai cosa pensare, della contingenza. Non sai nemmeno che diavolo voglia dire Mara nel dire “contingenza”, e ti senti stupido, ragion per cui ricordi di aver rimandato spesso alla mente quella scena e quella frase, e lo stai facendo anche adesso, dopo chissà quanto tempo, ma adesso hai la strana sensazione di possedere una specie di chiave di volta per quella frase, e sei sorpreso di te stesso quando ti ritrovi a sillabare a voce bassissima le stesse parole. Tutta questa contingenza. Ascolta: lo stai dicendo, proprio adesso. E lo ripeti: tutta questa contingenza. Sai di aver capito, o di esserci stranamente vicino.

Il primo colpo va a schiantarsi sul braccio del centauro. Se avevi dei dubbi sul bastone, sulla persona a cui potesse servire, adesso è il momento di levarteli, perché non può proprio appartenere al tipo della Smart, è chiaro, il bastone deve essere di suo padre, ti lanci in questa congettura – ma non è rilevante, lo sai. Questo qui non ha nessun problema di deambulazione, anzi. Si muove benissimo, salta da un piede all’altro per mantenere l’equilibrio del corpo, proteso verso l’avversario in armatura motociclistica. Quest’ultimo, da parte sua, manca l’occasione per afferrare il bastone ed estirparlo dalla presa feroce del tipo della Smart, che invece lo ritira a sé, e fa precipitare un secondo maglio sulla spalla del centauro, il quale accusa, si sposta barcollando sulla sua Triumph, chiudendosi per così dire alle corde. Guarda: non gli sta andando bene, ma ha la fortuna di possedere una buona armatura. Sarà per questo che il tipo della Smart procede senza pietà. Ancora un colpo, violentissimo, all’altezza dello sterno, con il centauro praticamente seduto in una posizione per niente comoda sulla sua Triumph. Un altro, sempre sul petto. Adesso ascolta la sinfonia sbagliata di tutti i clacson e le sirene del mondo che glissa in una dissonanza temibile, ingrossandosi man mano. Wagner. Il motociclista è piegato, le mani sulla pancia; il tipo della Smart si accanisce sulla testa-casco. Poi afferra con la mano libera il centauro, lo risolleva, gli fa piombare addosso un colpo devastante, sul casco, spaccandone la visiera. Le schegge di plastica si disperdono pirotecniche. Sulla Punto lì davanti la signora continua a truccarsi, stavolta le ciglia. Ancora colpi di bastone sulla testa-casco, senza pietà, guarda che faccia che ha adesso il tipo della Smart, è letteralmente indiavolato, rossissimo, tra un po’ gli scoppia la giugulare. Continua a spruzzare odio e saliva nebulizzata. Dietro di loro, e dietro la Smart, un ragazzo che avrà la patente da non più di una settimana caccia il braccio fuori dal finestrino e svuota il posacenere direttamente sulla strada butterata. Il centauro è caduto, guardalo. È a terra. Ha le braccia incrociate a proteggersi il viso, la testa, il casco, quello che è. Quindi prende un’altra decina di colpi di bastone sui gomiti e sugli avambracci, poi sul petto, sulla pancia, ancora sulle spalle, finché il tipo della Smart non gli si inginocchia accanto, depositando il bastone a terra, e porta le mani sotto il mento del centauro, al collo. Prende a slacciargli il casco. Il centauro deve essere svenuto, non oppone più nessun tipo di resistenza. Siamo vicini alla fine.

Adesso bloccalo così, non proseguire. Congela lo scenario. Ferma per un attimo questo disastro. Una diapositiva psichica, ecco cosa farai: devi pietrificare il tempo dell’azione finale, fossilizzarlo. Sospendilo nell’attimo prima, che è adesso, quando il tipo della Smart ha già raccolto il bastone da terra e caricato lo schianto terminale afferrandolo per il puntale rinforzato e non già per l’impugnatura, alzando le braccia e stirando l’angolazione dei gomiti uniti, puntando il bastone al cielo – alla volta preesistente, nient’altro che una pellicola bianca incolore. Scolpisci i dettagli della fine, fai un render 3D, lascia il tipo della Smart a mezzo metro da terra, le ginocchia leggermente piegate, si è staccato dal suolo facendo leva sulla punta dei mocassini che indossa senza calze, saltando, è saltato in aria, prepara la mazzata ultima producendosi in un gesto atletico e pulito, per nulla artefatto, incombe definitivo sul motociclista svenuto a terra, privato del casco che è rotolato oltre il bordo smangiato del marciapiedi, la signora sulla Punto che ha finito col mascara per ciglia extra-lunghe e già si prepara col fondotinta, il neopatentato dietro di loro che rimette a posto il posacenere svuotato e va ad alzare il volume dell’autoradio, un’ambulanza che non riesce proprio a passare al di là del volume della sirena – e tutti i clacson che sembrano condannati per sempre a stonare, perdio – e il tipo della Smart, elastico, sollevato con precisione omicida sul centauro che si sta perdendo il gran finale, il tipo della Smart che punta con tutto il corpo al cielo – al cielo – col suo bastone che indica il centro esatto dell’universo, e che disegnando un arco di circonferenza più o meno preciso andrà a premere ricadendo sul motociclista svenuto, inarcandosi per dirigere la pressione, squarciandogli la faccia con forza, spaccando il di lui setto nasale o il massillo-facciale o l’occipite – o comunque una gran quantità di denti – sturando un qualche flusso emorragico fatale. Uccidendolo, uccidendo il centauro, culminando il disastro, ponendo fine a qualcosa di relativamente importante. Tu blocca la scena, paralizzala. Il bip costante a 12 KHz di un elettrocardiogramma piatto confuso fra le armoniche indistinte nella bolgia di clacson e similari. Il centauro: si sgancia dalla vita, abbandona la coscienza della carne. Quaggiù, per sempre.
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sabato 5 giugno 2010

Incipit terminale

Da bambini, coi cugini, giocavamo a barchette di foglia sotto i viadotti di montagna: tra le rapide schiumose di rivoli e rigagnoli, velieri e bastimenti rollavano incerti fino ad inabissarsi nei tombini, con gli alberi maestri divelti e le vele strappate dalle grida di tifo e disperazione.
Così si cresceva, imparando la fine delle cose.
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