lunedì 14 giugno 2010

Qualcosa di relativamente importante

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Prima della lettura: meglio scaricarsi il pdf, da qui.
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Guarda: i palazzoni gialli, la volta della tangenziale che sembra contenere tutto, la cappa asfittica color sperma. Il sole si alza lento, non lo vedi, lo avverti, ne avverti l’ascesa a incendiare i contorni delle cose, lo sbiadire dell’aria, il giorno senza definizione. È ormai estate. Solo ieri sera i gelsomini ti davano il mal di testa. Quell’odore resinoso non è fatto per i nasi solitari. Il tuo è il più solitario dei nasi, si tengono compagnia fra loro solo gli organi gemellari del tuo corpo solo. Reni, polmoni, mano destra con mano sinistra e così i piedi, e gli occhi, le orecchie, i glutei. Ginocchia, gomiti. Narice con narice. Camminando sperso nella notte nauseante, i dialoghi del tuo corpo con se stesso, il monologo della tua mente cortocircuitata: vedi pozzanghere essiccate, escrementi fossili sotto la scarsa illuminazione pubblica, gruppuscoli sparsi di gente molto più giovane di te che sa meglio di te come risolvere l’incombenza di dover passare il tempo. L’arcata dentale superiore si stringe con forza su quella inferiore, piegano la curva mandibolare che emerge esternamente dall’ovale imperfetto del tuo viso appiattito. La pressa ossea, autistica, prefativa al tuffo salivare con cui inghiotti certi pensieri per seppellirteli nello stomaco, a marcire e consumarsi, a diluire una cena insoddisfacente. Pensieri che favoriscono la diuresi. Perché ti avviti su te stesso? Ti passi la punta della lingua sull’eruzione al palato, subito dietro i denti, è un’infezione che brucia, forse l’ipovitaminosi, forse il fumo, o il caffè. C’è uno strano silenzio.

Davanti a te il signore anziano, beato di anzianità, in camicia celeste a righine bianche, sentilo, senti l’odore pulito di sapone fresco, sentine la pelle spessa, esperta, consumata ma non avvizzita, sentine l’esperienza nella postura del corpo anziano, senti il tempo che si porta appresso, i capelli bianchi ingialliti, sottili e ben pettinati, sentine tutto l’orgoglio del vissuto trascorso. La perfezione dell’esperienza, epicurea. Tu cos’hai da insegnare ai sensi di chi ti sente? Poco, forse nulla. Ma nessuno ti sente, non dividi gli spazi con nessuno, non c’è nessuno che ti avverte. La tua pelle, acquista spessore solo grazie a una cosmesi privata, notturna, massaggi delicati con cui ti prendi cura di te stesso prima di lasciarti andare nel sonno. Al mattino non hai tempo, ti svegli tardi, già stanco nelle ossa. Adesso sei quasi sfinito, leggi l’oroscopo di un segno che non è il tuo. Sullo schermo centrale. Scenderai fra sei fermate. Il signore anziano inforca gli occhiali da anziano, la montatura dorata, legge Il Messaggero, quotidiano di Roma. Il sole continua ad alzarsi, l’universo è abitudinario da tempi indicibili. La routine del tempo maiuscolo cristallizzata in ogni manuale di scienze fisiche chimiche naturali. Alla fermata sale un signore indiano che zaffa di aglio e sudore aspro, e due ragazze, belle, colorate, con le cuffie alle orecchie, future assistenti socio-sanitarie precarie che si sbatteranno da un contratto a progetto all’altro. E tu, per allora?

Ma adesso: il getto di aria condizionata andrà ad indurirti i nervi del collo, mai più sedersi sotto il bocchettone, meglio scegliere il posto interno, sul corridoio. L’artificio del fresco si porta dietro ogni tipo di odore meccanico del mezzo, freni, consunzioni metalliche, plastiche bruciacchiate. Un odore di polvere e guaine sfritte, un odore secco, brutto, fastidioso. Ricorda in qualche modo l’odore pulviscolare dei temporali estivi sugli asfalti roventi e sporchi. L’altra settimana ne ha fatto uno molto forte, ai margini delle strade scorrevano queste fiumare lorde, grasse, bianche di una schiuma che sembrava detersivo e invece era merda. Si portavano dietro tutta la merda della città, giù per i tombini, nella rete fognaria antica, sepolta, a mescolare merda con merda, sporco urbano inerte e disavanzi intestinali del consesso sociale. Non pioveva da mesi.

Pensa alle cose, adesso. Alle cose. Qual è la cifra del tuo rapporto con le cose, le cose che non senti più. È la tesi che dovrebbe star dietro a tutta la Nausea di Sartre, che non hai letto, in realtà. Le cose, e la relazione con esse che va incrinandosi, finché non si riesce più a esperire un nesso esistentivo col mondo che circonda, come un albume, la percezione. Ecco come ti senti, pur nella confusione ineccepibile di una mancanza totale di riferimenti: slegato dal mondo fenomenico – dalle cose – isolato nel raggio di un campo percettivo pigro, minuscolo, il tuo universo personale che regredisce a dimensioni irrilevanti. Potresti ben dire che guardi senza vedere, che senti senza ascoltare. Eccetera eccetera eccetera. Si è creato un distacco biologico fra il tuo corpo, i sensi con cui esperisci ciò che ad esso è esterno, e quell’esternità. Ti vedi come una goccia d’acqua su una superficie superidrofoba, costretto a non mescolarti mai, fattore di coalescenza. La realtà è quella parte della tua vita che non senti più, quella sezione semantica del tempo che attraversi impermeabile. Chiamala “nausea”, “noia”, pigrizia. Chiamala come vuoi: è solo un processo di allontanamento dalla Natura, una deriva lentissima. E sei tu. Da te è impossibile allontanarti – è impossibile. Lo so che lo sai. Lo vedo da come muovi lo sguardo dietro quei Ray Ban fuori moda, da come ti assicuri di avere le chiavi di casa in tasca, dal modo in cui guardi quella ragazza fissandone il riflesso sul vetro sporco. Non ci sono soluzioni, e forse non è un problema, è semplicemente arretrato tutto, si è asciugato, svaporando chissà dove, lasciandoti da solo sullo scoglio brullo del tuo io personale. Naufrago. A ciascuno il suo, dici. Ma in fin dei conti la relatività del tutto, in queste condizioni, è la prima ermeneutica che salta gambe all’aria, inservibile, puoi giusto tirarla in ballo quando non te la senti di approfondire, come stai facendo adesso. Hai tutto il diritto di restare superficiale sulle questioni che ti riguardano nel profondo. Ma ti avviso: se sei nella condizione di affermare “non c’è nient’altro e nessun altro”, allora non puoi tirare in ballo nessun termine di paragone, neppure in maniera immaginativa. È tutto il codice del riconoscimento che si è inceppato, non so se mi spiego.

Senti l’indiano che sa di aglio e sudore, sentilo come in realtà nasconde un aroma nascosto e nauseante di budella, sentilo bene. Torna indietro alle vacanze di Natale di quando eri piccolo, l’uccisione del maiale, tutti i parenti intorno al tavolo vecchio basso e smaltato di verde dei tuoi nonni materni, tutti a tagliuzzare la carne del maiale scannato il giorno prima in pezzetti piccoli così, pezzetti che poi finivano dentro le budella dello stesso maiale, che si riconvertiva in salsicce e quant’altro. (La reincarnazione da carne viva a carne morta, salata, speziata, insaccata, essiccata – pensa al karma dei porci, pensaci. Ti viene da ridere.) Ricorda quell’odore caramelloso e acidulo, l’odore delle budella che stavano a ripulirsi dentro la bacinella azzurra vicino al balcone – la luce scialba dell’ultima settimana dell’anno che rimbalzava sulla neve indurita, il grembiule quadrettato azzurro di tua madre, il telegiornale in bianco e nero che tuo nonno chiamava “comunicato” – e dimmi se non è lo stesso odore che adesso indovini negli spostamenti d’aria che generano i movimenti di questo signore indiano. Sa di budella, no? È un buon paragone, “odore di budella”, potresti scriverlo in qualcuno dei racconti che inizi a fatica quando ti senti in qualche modo illuminato, allettato dall’idea di passare una serata davanti allo schermo del computer. Dici che scrivi. No, non lo dici: lo pensi fra te e te, è un augurio, una speranza, qualcosa che ti piacerebbe fare con dedizione, scrivere ogni giorno, anche cose inutili, tentativi che cestinerai il giorno dopo, mozziconi di racconti. Pensi alle cinquemila parole al giorno di Miller e ti viene la febbre. Alle cinque pagine di Cărtărescu: idem. Non trovi il tempo per scrivere nemmeno una cartella al giorno. Leonardo Bonetti che ti dice della “quinta riscrittura” di quello che sarà il suo prossimo romanzo, e quindi pensi alla prima, poi alla seconda, e alla terza, quarta e quinta riscrittura, e amplifichi inverosimilmente la sensazione di fatica estrema che sta dietro certe cose. Ritorna il numero cinque. Vai verso la Fiera. Adesso il sole brucia oltre il vetro, e da sopra arriva il getto dell’aria condizionata, il signore anziano davanti a te legge la pagina di cronaca – c’è un serial-killer, a quanto pare, hanno incrociato i dati di una decina di casi irrisolti e sembra che ci sia in giro un pazzo che periodicamente decide di alleggerire il pianeta – l’indiano aglio-sudore-budella si siede al posto lasciato libero dalla ragazza che fissavi nel riflesso del vetro che si prepara a scendere alla prossima.

Dopotutto pensi che l’esperienza non sia altro che un accumulare pregiudizi, nozioni marmorizzate, testarde, intimamente disoneste. Stai leggendo un manoscritto inedito per cui ti daranno la miseria di dieci euro, il romanzo di un signore che vorrebbe diventare uno scrittore pubblicato. Sul frontespizio, sotto il titolo, leggi che questo signore si è premurato di registrare l’opera alla SIAE. Scatta, il pregiudizio: sarà una schifezza? No, non così, non te lo chiedi: lo sai per certo, sarà roba per editori a pagamento pronti ad approfittare delle pulsioni narcisiste di questi signori, che ci cascheranno senza vergogna, e poi passeranno secoli a smazzare a parenti e amici le copie obbligatorie, centinaia, che avranno stampato come da contratto, sprecando carta, inchiostro, tecnologie, sprecando soldi che avrebbero investito meglio comprando libri buoni da leggere, e se proprio avevano nel sangue il cosiddetto demone della scrittura avrebbero potuto maturare uno stile, chissà, e scrivere qualcosa di decente su cui far ragionare uno come te, che legge manoscritti inediti nel tempo perso, e a cui danno dieci euro per ognuno di questi manoscritti che spesso ti mettono di cattivo umore dal momento che lo sai per certo che la cattiva scrittura è contagiosa, e visto che tu intendi scrivere non dovresti potertelo permettere, di leggere cose così brutte. Ecco perché non hai il tuo stile, stammi a sentire. Devi leggere, ancora, tanto, devi leggere tutti gli americani contemporanei, gli italiani che non hai letto, devi leggere Pasolini, Buzzati, Pavese, Moravia. Devi leggere, così stai solo perdendo tempo. Leggi poesie, non solo narrativa, leggi saggistica e approfondimenti socio-politici. Trova le storie, coltiva la fantasia, inventa i personaggi, chiunque è bravo a scrivere di sé, tutti scrivono di sé in mancanza di storie e di immaginazione. Il Sé è un baluardo, non si scappa – pensi – a meno che non sei bravo, bravo davvero, e la bravura può essere incentivata. Ma sappilo, che non sei meglio di nessun altro.

Sei nell’ingorgo. Tu, il signore anziano, l’indiano, la ragazza che deve ancora scendere. Siete nell’ingorgo, e non sai da quanto tempo. Poi ci sono tutti gli altri, quelli che stanno lì, al di là della tua capacità di percepirli o di connotarli in una qualche relazione con te, e in realtà nemmeno la ragazza, il signore anziano e l’indiano stanno in una qualche relazione con te, a parte il fatto che questi ultimi li hai notati, osservati, annusati. Per tutti gli altri, invece, non hai fatto altro che registrarne con la coda dell’occhio la presenza nebulosa, lo stare lì e basta. Sconosciuti: significa proprio questo – intersezioni nulle di insiemi diversi. Siete, tutti, nell’ingorgo. Il semaforo rotto, due vigili sudati che non stanno facendo esattamente le cose per bene. Agitano le palette, vorticano le braccia. Sembrano sul punto di perdere definitivamente il controllo. Ogni pensiero si riempie di bestemmie. Inizia la nenia stonata dei clacson, i motorini si infilano nelle strettoie fra le macchine, vanno sui marciapiedi per andare da nessuna parte. Osserva bene: questo è un angolo della civiltà che si è andata creando a colpi di rivoluzioni industriali e sociali. È Occidente: questo fiume deforme di lamiere surriscaldate, verniciate a polvere, queste macchine piene di disperazione che portano i propri padroni nelle mani di altri padroni, a timbrare badge aziendali con un ritardo dovuto a tutti gli ingorghi del mondo, accumulando bestemmie e rabbia sociale in completo d’ordinanza, maledicendo quello davanti che fa e sente e bestemmia esattamente alla stessa maniera. Per quanto potrà durare: non pensarci, non sta a te. Guarda fuori, il tipo-manager sulla Smart, lo vedi? Lui crede di poter andare dappertutto, ma basta una Punto sfasciata per bloccarlo. Come quella che ha davanti. Da lì non si muoverà per i prossimi dieci minuti, hai idea della massa di bestemmie che saliranno al cielo? Guardalo come urla dentro l’iPhone, guarda: le vene del collo ingrossate come lumache, la fronte madida di sudore e di gel per capelli che inizia a sciogliersi, il nodo della cravatta stringe come un cappio, si leva gli occhiali da sole, batte i pugni sul volante, sfriziona, suona il clacson, tira la testa indietro sui poggiatesta rinforzati, con un niente si sta rovinando la giornata che deve ancora iniziare, basta poco. Tienilo d’occhio. Non ci si muove: il ritmo frenetico della città.

Si va avanti a singhiozzi, anche sulla corsia preferenziale, dove dovreste scorrere regolarmente – tu, la ragazza che non riesce ancora a scendere, l’indiano aromatizzato al budello, l’anziano fresco di sapone buono e tutti gli altri esseri nebulizzati ai margini della tua percezione monca. È stata invasa pian piano, una conquista millimetrica, da una selva di moto, macchine grigie, SUV sproporzionati, utilitarie premoderne senza filtro antiparticolato né dispositivi di sicurezza passiva, auto elettriche. Ma non ci si muove più: là in fondo, guarda, un tram è rimasto bloccato in curva, non riesce a proseguire a meno di distruggere qualche fiancata di troppo, automobili parcheggiate in modo creativo, praticamente in mezzo alla corsia, le macchine normali ci passerebbero senza problemi, ma un tram ha bisogno di un raggio tutto suo. Non può proprio passarci: quella curva se la può scordare, è un tappo di metallo verde oliva che tiene imbottigliati senza pietà centinaia di disperati urbani, a imprecare in silenzio ognuno dentro il proprio abitacolo, fanno rimbalzare bestemmie grosse come cattedrali sui cruscotti lucenti, generano reverberi senza fine finché l’abitacolo non va in feedback, e così i cervelli, cervelli che impazziscono in pieno comfort Euro4, cervelli anneriti dallo stress, quasi morti, zone di lacerazioni, aneurismi potenziali. Si espande senza fine l’orgia di clacson, sirene di ambulanze bloccate, uno strascico denso di onde quadre, fastidiose, frequenze impastate isteriche. Il tutto è avvolto nella massa impalpabile delle polveri sottili, velenosissime, letali. Sicuro di non voler scendere alla prossima?

Succede in un attimo, quando l’immobilità è ormai perenne. Succede che tra la Punto sfasciata e la Smart si crea uno spazio infinitesimo: la Punto è avanzata di un niente, mentre il tipo sulla Smart, adesso in fase di ascolto della voce che proviene dall’altra parte dell’iPhone e continuando ad agitare le mani ai danni del volante, non ha schiacciato sul gas quel poco che bastava per mantenere la proporzione della distanza fra i paraurti dei due automezzi. Ecco allora che fra le due auto, nell’intercapedine vitale fra targa e targa, si inserisce, sbucato chissà da dove, questo motociclista. Una Triumph. Segui bene la scena, seguila, tieni d’occhio la situazione, perché potrebbe precipitare. La Triumph sta di traverso alle due auto, perpendicolare al senso di scorrimento di questo universo di pistoni e valvole che non scorre. Isola questa scena, restringi il colpo d’occhio, lascia scorrere la sinfonia storta dei clacson fuori sincrono, il tinnitus dell’universo. Il tipo sulla Smart è evidentemente contrariato dalla scelta del motociclista di penetrare lo spazio vuoto fra le due macchine. Ha un lampo negli occhi che dice tutto. Come se fosse proprio la Triumph a bloccargli la strada, come se potesse effettivamente andare da qualche parte – se il motociclista non avesse attuato questa decisione sconsiderata di invadere quel mezzo metro esiziale di asfalto – invece di restare lì ad abbrustolire e imprecare e maledire. E quindi maledice, impreca, bestemmia, scaraventa il cellulare sul sedile posteriore e affaccia la testa sudata e paonazza di rabbia metropolitana dal finestrino abbassato della sua auto. Urla qualcosa al motociclista, vedi i denti che luccicano e le gocce di saliva in controluce che partono come proiettili e poi si disfano nel nulla.

Di fianco a te c’è una signora che fa il Sudoku. Te ne accorgi solo ora. L’ha quasi finito, è una griglia di livello medio-alto. Guardi la signora, di profilo, e vedi un’immagine di serenità indiscutibile, la signora ha la pelle a dir poco perfetta, anche se potrebbe aver passato i cinquanta, la sua pelle è opaca e omogenea e naturale. Ha appena finito il Sudoku e ripone la rivista di giochi dentro la borsetta. Solo adesso si accorge dell’ingorgo in cui siete tutti paralizzati, e si mette a parlare fra sé e sé, dicendo cose come “non è possibile – questa città – ogni volta – non funziona mai nulla” e tutto il campionario di frasi adatte all’occasione. Poi vi incrociate lo sguardo, per un attimo, e tu sei praticamente costretto a fare quella mossa con gli occhi e la bocca che sta a significare che sei d’accordo, sì, ma che per quanto si possa essere d’accordo non è che si risolvano i problemi, anzi, e quindi tutt’al più si può condividere oltre al giudizio negativo su tutto ciò che “non funziona” anche questa particolare condizione di impotenza. Un giro di pensieri in una mossa di occhi e bocca accompagnata da una impercettibile scrollata di spalle. “Che possiamo farci”.

Adesso ritorna in esterna. Sempre i palazzoni gialli che contengono la massa del traffico immobilizzato, la lingua cementizia della tangenziale, i lampioni spenti. Eruzioni cancrenose della terra. Ogni cosa è rovente, il sole arde furioso in questa metà di mondo. E ancora i due a contendersi un posto migliore nel traffico senza movimento. Il motociclista ha deciso che il tipo sulla Smart ha parlato troppo, lo vedi da come si è girato verso di lui, dai movimenti a scatti della testa che sfidano senza tema la sua rabbia incondizionata di automobilista che non procede. La sua testa, la testa del motociclista, è avvolta dal casco, integrale anche se è estate, la sua testa dentro il casco fa su e giù per rispondere alle urla del tipo con la Smart, il suo cervello è protetto all’interno di due scatole craniche, di cui la più esterna a marca MomoDesign, imbottita. Non sai cosa stia dicendo, ma non ti è difficile intuirlo. Fa su e giù il casco che contiene la testa che contiene il sistema nervoso centrale, il sistema cerebellare. Sembra un cavaliere teutonico aggiornato ad oggi, un’ultimissima versione dotata di giubba con inserti protettivi in caso di caduta rovinosa, pantaloni nero lucido in tessuto tecnico con ginocchiere imbottite, stivali. E il casco. Pensa: il futuro è già adesso e non te ne sei accorto, il futuro arriva piombando nella paralisi, nel vuoto di progressione, è un presente stantio. Guarda attentamente cosa succede: il centauro, fra scatti di testa-casco ai limiti dell’epilessia, fa gesti eloquenti con le mani, invita spavaldamente il tipo sulla Smart a scendere, a scendere dall’auto, se ne ha il coraggio. L’altro continua a sbraitargli contro, ma è chiaro che adesso è in gioco un tipo di onore che possono capire solo loro due, un onore automobilistico, riguarda la conquista di segmenti d’asfalto, uno spazio vitale urbano. Quindi la portiera della Smart si apre, vedi lo scatto dell’automobilista nel tirare il freno a mano, noti un ulteriore e repentino ingrossamento delle vene sul collo. Il motociclista-cavaliere teutonico ha messo il cavalletto, è in piedi, sarà alto due metri, sei stupito. Intanto la ragazza alla guida della Punto sfasciata, davanti a loro, si perde tutta la scena perché sta usando lo specchietto retrovisore per darsi un po’ di rossetto. Si perde quindi anche il movimento furtivo, esatto, con cui il tipo in Smart, dopo aver aperto la portiera e tirato il freno a mano in un unico scatto nervoso, si china ad allungare il braccio sotto il sedile del passeggero per prelevare qualcosa. Guarda cos’è: un bastone, un bastone da anziano, da signore di mezz’età con problemi di deambulazione – o altro, fai tu. Il tipo scende definitivamente dalla Smart e impugna un bastone, che non è proprio come una mazza da baseball o un pezzo di tubo Innocenti o chissà cos’altro per colpire o intimorire un eventuale ostacolo umano, ma insomma. Anche un bastone ha il suo perché in certi casi, col puntale rinforzato in gomma e l’impugnatura ergonomica attaccata al bastone vero e proprio a formare un pericolosissimo angolo acuto. Cosa vuole fare il tipo con la Smart, fuori dalla Smart, munito di bastone, avvicinatosi al centauro in armatura tecnica? Fargli il culo, ecco cosa vuole. Concentrati sulla scena.

Lo schermo centrale si produce in pubblicità di agenzie viaggi. Quest’anno spingono la Turchia. La signora del Sudoku dice al cellulare: “Di’ a Claudio che faccio tardi, sono bloccata, non so cos’è successo, c’è un tram che non riesce a muoversi, mi sa, digli che faccio una mezz’ora di ritardo, intanto puoi chiamare l’avvocato che oggi chiudiamo la pratica di Scarselli”. Il signore anziano ha chiuso il giornale, lo poggia sulle gambe, vedi la prima pagina e ti cade l’occhio sul titolo in grassetto “Cellula umana replicata in laboratorio”. La ragazza in eterna attesa di scendere alla prossima, in piedi davanti alla porta centrale, prende del tabacco da una confezione in plastica gialla, decide di portarsi in anticipo arrotolandosi una sigaretta. Non sai perché ti ritorna in mente un giorno di tanti anni fa, in un paesino delle basse Marche con alcuni amici dell’università, a pochi chilometri dalla famosa e mistificata San Benedetto del Tronto. Sul punto panoramico: lo sguardo spalancato sulla vastità dell’Adriatico, la luce netta che illumina in maniera quasi carnale, tangibile, il bacino acqueo smisurato e la costa assaltata, la terra dove hanno avuto la meglio i costruttori, le seconde case al mare, gli ideali vacanzieri di persone mediamente prive di ideali. Il tratto della A14 in mezzo ai vigneti a capanna. Ricordi Mara, nella luce di maggio che cade a piombo, ripensi senza motivo apparente a Mara che dice: “Tutta questa contingenza. Che ne sarà di tutta questa contingenza”. Tu non sai cosa pensare, della contingenza. Non sai nemmeno che diavolo voglia dire Mara nel dire “contingenza”, e ti senti stupido, ragion per cui ricordi di aver rimandato spesso alla mente quella scena e quella frase, e lo stai facendo anche adesso, dopo chissà quanto tempo, ma adesso hai la strana sensazione di possedere una specie di chiave di volta per quella frase, e sei sorpreso di te stesso quando ti ritrovi a sillabare a voce bassissima le stesse parole. Tutta questa contingenza. Ascolta: lo stai dicendo, proprio adesso. E lo ripeti: tutta questa contingenza. Sai di aver capito, o di esserci stranamente vicino.

Il primo colpo va a schiantarsi sul braccio del centauro. Se avevi dei dubbi sul bastone, sulla persona a cui potesse servire, adesso è il momento di levarteli, perché non può proprio appartenere al tipo della Smart, è chiaro, il bastone deve essere di suo padre, ti lanci in questa congettura – ma non è rilevante, lo sai. Questo qui non ha nessun problema di deambulazione, anzi. Si muove benissimo, salta da un piede all’altro per mantenere l’equilibrio del corpo, proteso verso l’avversario in armatura motociclistica. Quest’ultimo, da parte sua, manca l’occasione per afferrare il bastone ed estirparlo dalla presa feroce del tipo della Smart, che invece lo ritira a sé, e fa precipitare un secondo maglio sulla spalla del centauro, il quale accusa, si sposta barcollando sulla sua Triumph, chiudendosi per così dire alle corde. Guarda: non gli sta andando bene, ma ha la fortuna di possedere una buona armatura. Sarà per questo che il tipo della Smart procede senza pietà. Ancora un colpo, violentissimo, all’altezza dello sterno, con il centauro praticamente seduto in una posizione per niente comoda sulla sua Triumph. Un altro, sempre sul petto. Adesso ascolta la sinfonia sbagliata di tutti i clacson e le sirene del mondo che glissa in una dissonanza temibile, ingrossandosi man mano. Wagner. Il motociclista è piegato, le mani sulla pancia; il tipo della Smart si accanisce sulla testa-casco. Poi afferra con la mano libera il centauro, lo risolleva, gli fa piombare addosso un colpo devastante, sul casco, spaccandone la visiera. Le schegge di plastica si disperdono pirotecniche. Sulla Punto lì davanti la signora continua a truccarsi, stavolta le ciglia. Ancora colpi di bastone sulla testa-casco, senza pietà, guarda che faccia che ha adesso il tipo della Smart, è letteralmente indiavolato, rossissimo, tra un po’ gli scoppia la giugulare. Continua a spruzzare odio e saliva nebulizzata. Dietro di loro, e dietro la Smart, un ragazzo che avrà la patente da non più di una settimana caccia il braccio fuori dal finestrino e svuota il posacenere direttamente sulla strada butterata. Il centauro è caduto, guardalo. È a terra. Ha le braccia incrociate a proteggersi il viso, la testa, il casco, quello che è. Quindi prende un’altra decina di colpi di bastone sui gomiti e sugli avambracci, poi sul petto, sulla pancia, ancora sulle spalle, finché il tipo della Smart non gli si inginocchia accanto, depositando il bastone a terra, e porta le mani sotto il mento del centauro, al collo. Prende a slacciargli il casco. Il centauro deve essere svenuto, non oppone più nessun tipo di resistenza. Siamo vicini alla fine.

Adesso bloccalo così, non proseguire. Congela lo scenario. Ferma per un attimo questo disastro. Una diapositiva psichica, ecco cosa farai: devi pietrificare il tempo dell’azione finale, fossilizzarlo. Sospendilo nell’attimo prima, che è adesso, quando il tipo della Smart ha già raccolto il bastone da terra e caricato lo schianto terminale afferrandolo per il puntale rinforzato e non già per l’impugnatura, alzando le braccia e stirando l’angolazione dei gomiti uniti, puntando il bastone al cielo – alla volta preesistente, nient’altro che una pellicola bianca incolore. Scolpisci i dettagli della fine, fai un render 3D, lascia il tipo della Smart a mezzo metro da terra, le ginocchia leggermente piegate, si è staccato dal suolo facendo leva sulla punta dei mocassini che indossa senza calze, saltando, è saltato in aria, prepara la mazzata ultima producendosi in un gesto atletico e pulito, per nulla artefatto, incombe definitivo sul motociclista svenuto a terra, privato del casco che è rotolato oltre il bordo smangiato del marciapiedi, la signora sulla Punto che ha finito col mascara per ciglia extra-lunghe e già si prepara col fondotinta, il neopatentato dietro di loro che rimette a posto il posacenere svuotato e va ad alzare il volume dell’autoradio, un’ambulanza che non riesce proprio a passare al di là del volume della sirena – e tutti i clacson che sembrano condannati per sempre a stonare, perdio – e il tipo della Smart, elastico, sollevato con precisione omicida sul centauro che si sta perdendo il gran finale, il tipo della Smart che punta con tutto il corpo al cielo – al cielo – col suo bastone che indica il centro esatto dell’universo, e che disegnando un arco di circonferenza più o meno preciso andrà a premere ricadendo sul motociclista svenuto, inarcandosi per dirigere la pressione, squarciandogli la faccia con forza, spaccando il di lui setto nasale o il massillo-facciale o l’occipite – o comunque una gran quantità di denti – sturando un qualche flusso emorragico fatale. Uccidendolo, uccidendo il centauro, culminando il disastro, ponendo fine a qualcosa di relativamente importante. Tu blocca la scena, paralizzala. Il bip costante a 12 KHz di un elettrocardiogramma piatto confuso fra le armoniche indistinte nella bolgia di clacson e similari. Il centauro: si sgancia dalla vita, abbandona la coscienza della carne. Quaggiù, per sempre.
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