martedì 22 giugno 2010

Quello che (non) dico: specie di lettera d’amore per ragazza già fidanzata

Ma io invece dico che sarebbe molto meglio se prendessimo e ce ne andassimo a scopare, mentre il tuo ragazzo sul palco continua a fare pessime figure suonando un basso da quattro soldi che tra l'altro ha un suono a dir poco imbarazzante, invece di starcene qui a proseguire questa messa in scena della chiacchiera di avvicinamento, con te che parli sempre e troppo e io che non parlo mai se non per monosillabi gutturali tipo ah e oh e mmm e per dirla tutta nemmeno ti ascolto, cioè nemmeno presto attenzione a quello che dici, tipo il tuo prossimo viaggio a New York e la tua coinquilina cattolica che va in chiesa la domenica mattina e il gattino pulcioso che sei andata a prendere dall’altra parte della città riportandolo a casa in motorino dentro la borsetta, e come vedi, a dispetto del mio disinteresse, sono fin troppo attento a quello che dici, se pensi che a quello che dici sto dedicando un due-tre per cento di tutta la mia capacità di attenzione, perché la restante parte delle mie facoltà cognitive è sparata nello spazio a immaginare certe scene che sarebbe meglio si realizzassero all’istante, e la Scena Madre di tutte queste scene vede noi due che ci alziamo da questa panca lercia e tagliamo in due il piazzale polveroso pieno di merde di cani e bicchieri di plastica che potrebbero risalire al paleozoico e ci inerpichiamo su per la salita che porta alle casupole dei punkabbestia, lassù oltre il muro di cinta, non senza aver fatto ciao ciao al tuo ragazzo che si crede fichissimo, su quel palco, si crede troppo fico lui e il suo gruppo di – cosa? – post-punk, ecco, un cosiddetto gruppo post-punk che fa parte della cosiddetta scena post-punk, e adesso che il post-punk e relativa scena sono morti da venticinque anni capirai l’entità dell’abbaglio di cui il tuo povero ragazzo è vittima nel continuare a suonare quelle quattro corde arrugginite col plettro del bassista degli Splatterpink – pace all’anima loro – e quello che ne viene fuori è un suono così povero che mi fa solo pena, solo pena e nient’altro, ma in fin dei conti non mi importa nulla, davvero, perché quello che dico mentre tu accendi una sigaretta dopo l’altra, quello che dico io mentre guardo di sguincio la forma tenerissima delle tue tette di marshmallows – perché non appena ti guardo negli occhi e/o ti fisso le labbra piene di orsetti Haribo ecco che tu giri lo sguardo da un’altra parte, e allora praticamente mi costringi a guardarti nello scollo del vestitino – è che dovremmo prendere e alzarci e attraversare la piazzola sporca da millenni e arrivare all’inizio della stradina ricoperta dalle erbacce, e muovere un passo dopo l’altro sulle scale sgretolate e anch’esse invase da questa giungla rasoterra, lassù per la collinetta, dove tu e le tue scarpette da signorina chic – che guarda alla Grande Mela non disdegnando affatto il Sol Levante, da questo punto privilegiato della strada consolare Prenestina – tu e le tue scarpette troverete non poche difficoltà nel mantenere l’equilibrio, e allora mi tenderai il braccio che io afferrerò con piacere cardiaco, e poi ti cingerò la vita, e nel frattempo la frequenza del tremito della mia carne in mezzo alle tasche dei pantaloni aumenterà, aumenterà quando sentirò nel palmo della mano sinistra la carne morbida del tuo fianco, tutto questo mentre il tuo ragazzo migliora la performance perché suona più incazzato e dunque più autenticamente punk, pieno di rancore per come stanno andando le cose nel momento in cui ci ha visto alzarci e dirigerci verso l’inizio della scalinata sepolta fra gli sterpi, e probabilmente l’ultima cosa che ha visto è il tuo vestitino modello tovaglia da pic-nic a quadri rossi e bianchi che fa una specie di onda proprio quando tu rischi di cadere, e riesci ad aggrapparti subito a me, dopodiché per lui, per il tuo ragazzo, siamo solo l’immagine di due persone di spalle che entrano nel buio più fitto oltre l’ultimo lampione a metà delle scale sbrecciate, anche se per noi il buio non è così fitto, perché c’è questa luce diffusa e stranissima che getta un velo bluastro su ogni cosa, una luce che non si sa da dove viene e che per questo deve necessariamente provenire dall’ultima stella viva dell’universo lontano e profondissimo e cavo, ma intanto noi abbiamo terminato la risalita della collinetta e adesso siamo lassù, lungo il sentiero che costeggia i rifugi dei tipi di questo posto, sul muro di cinta, e camminiamo ormai avvinghiati e i nostri passi croccanti sopra i rametti e la ghiaia e i pezzetti di vegetazione morta hanno un volume di gran lunga più imponente dell’impianto del palco, che adesso è lontano anni luce e fa solo un rumore indistinto e nebuloso e il tuo ragazzo sta terminando quella farsa ridicola dell’assolo in piena distorsione a metà di My Last Fuckin’ Me – che titolo del cazzo, cioè – e quindi, davvero, tesoro, io dico che dovremmo alzarci da questa panca rovinata e levarci dalle scatole e andarcene lassù a scopare in mezzo ai rovi, col tuo vestitino modello tovaglia da pic-nic a quadretti bianchi e rossi appeso a un ramo qualsiasi, nella notte blu notte che sa di erba tagliata e azoto e polvere e Goleador alla frutta.
_______________________________________
Stampa il post

Nessun commento:

Posta un commento