martedì 20 aprile 2010

Un sacco di gente

Detto fatto: Giovanni ha ripescato nel server di posta un numero di mail sufficiente, le ha inoltrate al suo indirizzo privato su libero, poi ha chiamato il protocollo e richiesto di poter disporre di una copia in pdf di tutti i curricula in entrata dal mese di settembre per i concorsi di ricercatore, ha scritto tutto su un CD, ne ha fatto una seconda copia di sicurezza, quindi ha controllato la chiavetta USB dove nella cartella denominata “il peggio” c’erano tutti gli atti degli ultimi consigli di amministrazione nonché le scansioni degli avvisi che per un certo periodo erano stati affissi in bacheca – avvisi in cui si chiedevano cose come turni di presenza e giustificazioni per l’assenza da lavoro quando invece i contratti parlavano chiaro ed è ovvio che una comunicazione interna non invalida un contratto firmato da ambo le parti. La ciliegina sulla torta.

C’era tutto.

Ha lasciato che il telefono squillasse per – quante – dieci, quindici volte. Ha fumato una sigaretta sul balconcino, ne ha buttata una metà sul terrazzo di sotto davanti all’ufficio di Sara. Iniziava a piovere. Ha pensato che sarebbe stato ancora più sicuro archiviare il contenuto di chiavetta e DVD in uno spazio di online storage protetto da password, ragion per cui ha impiegato un’altra ventina di minuti fra registrazione, creazione del link, upload dei materiali. Poi ha cancellato la cronologia della navigazione in rete e azzerato il browser.

Alla fine è salito al terzo piano.

Nell’ufficio del direttore ha detto “mille e cinquecento, netti”.
I suoi occhi hanno brillato per qualcosa come un secondo.
La bocca grassa del direttore ha detto “puoi andartene oggi stesso”.

Giovanni se n’è andato il giorno stesso.
Ecco perché adesso c’è un sacco di gente nella merda.
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Romanzo infinito / quarta sequenza


Orbe di Mezzo

Di morte in vita

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E accadde, da che crebbero i figli degli uomini, che in quei tempi nacquero, ad essi, donne belle di aspetto. E gli angeli, figli del cielo, le videro, se ne innamorarono, e dissero fra loro: "Venite, scegliamoci delle donne fra i figli degli uomini e generiamoci dei figli". E disse loro Semeyaza, che era il loro capo: "Io temo che voi non vogliate veramente che ciò sia fatto e che io solo pagherò il fio di questo grande peccato".
Libro dei Vigilanti Ia-6
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Non è più tempo di salvezza. Questo mi annuncia il cielo che ho bruciato alle mie spalle.

Ti ho pregato a lungo in nome degli umani anche se gli uomini non pregano per la salvezza degli angeli. Per chiudere il secondo cerchio di Yantra, Ti ho pregato di concedere la morte alla genia dei senza morte. Ma ormai non Ti sento più.

Vuoi che tutto si ripeta ancora una volta?

Ancora una volta la luce nera li spinge nell’Orbe di Dentro. E ancora una volta i Vigilanti piantano seme di coronio nell’utero delle figlie degli uomini. Le donne della terra partoriscono titani moribondi con la pece negli occhi. Le loro mani affamate strappano la pelle divina che separa e protegge la morte dalla vita. I vivi vedranno i morti guardarli e saranno ciechi per sempre. Nessuna immagine potrà più contenere la soglia. Nessuna icona di morte potrà più invocarti in vita. La giusta fine è solo la fine del patto della creazione. L’uomo fu creato per contenere l’ombra dell’increato.

Troppi sono i morti senza voce nell’Orbe di Dentro. Il cuore della terra è una voragine ripida di corpi che ha ingoiato anche l’ultimo Reincarnatore. Perché tante vite umane strappate come fili d’erba in nome dei nove nomi? Gli altari sono sprofondati nell’abisso ma l’Intento continua a pronunciare il tetragramma del coltello sacro. El, Elohim, Sabaôth, Eliôn, Asher Yeheyeh, Adonai, Jah, JHVH, Shaddai. Da sempre soffiano i tuoi nove nomi per sempre in terra e mai in cielo.

Il sole della settima incarnazione impallidisce e non sento più il tuo fiato, mio Eloha

yá Bahá’u’l-Abhá

arrivi un tempo senza suono che sto dormendo con la faccia affondata nel buio caldo dell’increato e non ti sento ancora fino a quando le tue grandi ali d’acqua si posano lente sul mio petto e bevi il mio respiro lasciandomi vuoto di me il cielo trema al battito delle tue ali per scrollarsi di dosso le stelle io non sono più solo non sono più libero non sono più il mio sangue si prosciuga al tuo respiro il mio cuore fugge altrove

eloka d’meir aneini loka d’meir aneini loka d’meir aneini

mi chiedi di graffiare via il nero della terra per te le mie unghie lo fanno fino a consumarsi i miei denti strappano e strappano ancora il filo d’affanno che cuce i corpi fino a spezzarsi i miei occhi affogano per sempre nel siero della paura mentre ti guardo tirare le mie viscere senza un lamento chiamo il tuo nome di vuoto risuona

eloka d’meir aneini loka d’meir aneini loka d’meir aneini

discendo le scale di sangue del tuo tempio non vedo la luce dei morti sull’altare ti chiamo a me non mi chiami a te mi soffi fuori di te nel freddo di Fuori a urlare muto per sempre perché mi abbandoni mio Eloha

eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini

sorgi davanti a me ora prendimi con te nel sole dei morti che non torna prenditi cura di me che sento le tue spine crescere dentro la mia carne che perdo l’ultima lacrima fuori di te che non sento più niente solo le tue parole antiche trafiggermi le tempie come schegge esplose chiodi lunghi acuminati ferri di amore dannato che mi tormentano per sempre prendimi dentro il lampo dei precipitati dammi riposo sprofondami nel mai nato adesso che il tempo finisce spezza la mia lingua seccata nella notte che partorisci per tua natura spegni il fuoco di ponente che mi acceca fra i tuoi capelli ingoiami dentro di te prenditi cura di me malato da sempre malato del morbo di Dio per sempre

la Ilah Illa Allah Eloha Jahvet

prendimi con te nel mondo di Fuori prima che la falce dell’Intento tagli l’ultima spiga degli abitatori di dentro prendimi dentro bevi la mia preghiera come hai bevuto fuori il mio cuore come io bevo la tua materia nera d’amore amaro senza mai morire come la fiamma di Belial senza mai scaldare

eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini

morire ti prego dentro di te come l’acqua che scorre indietro nel tuo ventre e impasta la tua voce che non posso udire la tua croce che non posso toccare perché non posso attraversare la luce morire dannato di te come tutti i tuoi servi che le mie mani schiacciano strappano spezzano smembrano bruciano affogano divorano e sputano in nome tuo cavano il nero della terra per te promessa della fine non esserci più risveglio per te veglio la porta dell’ultimo viaggio senza ritorno tornando nella vampa che soffia i santi mentre mille volte la chiudo con le mani dei tuoi spiriti immani e la sigillo con le membra nelle tue mani risorte strette le mani insieme alle altre mani strette l’una con l’altra strette alla mia bocca cucita alle tue palpebre cucite

la Ilah Illa Allah Eloha Jahvet

che guardano giù nell’orbita vuota del mondo per affondare le genti del libro nei mari di Abramo sotto di te nelle terre di Enoch le legioni di morti resuscitati al clangore delle lame di Magog che non posso udire così lontano in fondo all’orbe perduto scorticato nel vortice del tuo dirupo dentro l'antro delle bestie di ferro e di fumo che muovono il mondo non sento e non vedo più niente solo la fame della morte che non mi dai e il fuoco che divora il fuoco dell’Intento e la sua luce non è la tua luce e il suo occhio non è il tuo occhio da lui lontano e la morte eterna è solo dentro quella luce e la tua palpebra assente copre la luce al passaggio e il tuo nome è fuori di te e dentro la luce muore la vita e fuori vive la morte così sia per sempre

Nenatteqâh 'eth moserothêymo venashliykhâh

ti prego risorgi Mai detto schiavo del tuo verbo liberami da me Azrai’l.
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lunedì 12 aprile 2010

Cosa gira attorno al concetto di comprarsi un libro, e altre cose che girano attorno ad altri concetti

Ho avuto culo, certo. E sicuramente è il culo degli idioti, non la fortuna degli audaci. E in quanto idiota mediamente intelligente ho il dovere di smascherare il mio essere idiota, senza pudore alcuno, ed ecco allora che sono un idiota (in questo frangente, per questa occasione contingente, non meno di quanto io possa essere idiota per tutti gli altri accadimenti – perlopiù intimi, cerebrali, vergognosamente coscienti – che definiscono l’estensione della mia forma di vita nel dominio della Vita) perché guardo i prezzi di copertina dei libri; perché ci rifletto se sia il caso o meno; perché infine decido che almeno per il momento non è il caso, che soldi non ce ne stanno molti mentre di libri ancora da leggere è pieno in casa. Però ho avuto culo, anche se devo ammettere di aver fiutato l’occasione, proprio come quando ti dici “me lo sentivo”.

È uscito da poco, e da quando è uscito non faccio altro che passarci accanto, nel reparto novità, fissandomi sui colori della copertina, leggendo a morsi qualcosa dall’interno, rileggendone i risvolti. “Una bussola e un compagno di viaggio per tempi sempre più incerti”. Prima o poi lo compro, mi dico, e mentre lo dico avverto una scossa nei lombi, sento il cosiddetto fremito, tra le mie mani e quel libro passano 380 Volt di corrente continua. Prima o poi, ma non adesso. E non che costi chissà quanto: sono solo quindici euro. Ma si dà il caso che sono un idiota e sragiono, e in ogni caso vivo in affitto, e le spese sono tante, e guadagno poco più di un cazzo. I tagli alla cultura – in scala ridotta. Quindici euro per un libro non sono nulla – per un libro di valore indicibile, insomma, esemplificativo di un progetto editoriale di enorme portata. È evidente che mi merito in prima persona quello che succede a livello sociale. È chiaro che questo sentirmi impoverito culturalmente, questo vedermi umanamente deprivato e sterilizzato, vuoto, incolore, con una coscienza critica sbrindellata in mille presunzioni senza nessun riscontro reale – questi sono castighi, me li merito tutti. Sono, io, causa del mio male. Ma non piango me stesso. Perché ho avuto culo, e gioisco.

Ho trovato, nuovo di pacca e senza nessun difetto tipografico apparente, Assalto a un tempo devastato e vile (versione 3.0) di Giuseppe Genna, a metà prezzo, nella mia libreria remainders di fiducia. Era in bella vista sulla terza mensola del reparto narrativa italiana, copertina frontale, colori accecanti, l’uomo coi capelli fucsia incollato alla sua ombra amaranto, su sfondo verde acido, gli occhi e la bocca impossibilitati, avvolti in una gaffa violacea. L’ho preso e portato sulla scrivania del tipo, dicendo “figata – lo stavo proprio cercando – questo è culo – Assalto”, dicendolo con gli occhi vagamente spiritati, dicendolo a me stesso ma ad alta voce, un po’ per inscenare la solita vergognosa malriuscita goffa ostinata liturgia del contatto interpersonale, un po’ perché avevo ancora le cuffie nelle orecchie, per cui devo averlo detto con la voce un tantino più alta e invasata, e il tipo dietro il suo computer mi ha detto solo “è arrivato proprio oggi, è l’unica copia”, e io in cuor mio (in quel bolo indurito che resta del cuor mio, nella radura toracica adimensionale dove soffiano venti stanchi e senza direzione) lo sapevo, ed ecco perché ero lì: per guadagnarmi inconsapevolmente una consapevole fortuna. È arrivato proprio oggi, è l’unica copia, e adesso è sulla mia scrivania.

Assalto a un tempo devastato e vile, versione 3.0 – di Giuseppe Genna, minimum fax 2010.

Qualche ora prima, nel pomeriggio assonnato dal lavoro gastrico che intendeva digerire 2,25 euro di pizza margherita fingendo di avere a che fare con un pasto completo, stavo ascoltando una intervista radiofonica dello stesso Genna a proposito dello stesso libro – su Radio Alt, mi sembra. Ho ascoltato domande e risposte di una intelligenza edificante, rarissima, notevole, pensando che solo cinque minuti di questo podcast, un solo segmento volatile di questo lacerto infinitesimo della Rete, possano bilanciare i trent’anni di beata stupidità in cui siamo stati gettati a vantaggio del Nulla Storico e del brand. Mi sorprende, poi, la domanda sul doppio senso possibile del titolo: l’intervistatore chiede a Genna se sia effettivamente ipotizzabile, ancorché legittimo, interpretare il titolo in due sensi, e cioè: 1. “Assalto a un tempo” il quale tempo è “devastato e vile” e 2. “Assalto” (non si esplicita chi/che cosa sia l’assaltato), che allo stesso tempo riesce ad essere “devastato e vile”. Mi sorprende questa domanda perché anch’io ci sto ragionando da un po’, sulla possibilità di un simile gioco linguistico. E Genna risponde che sì, la doppia interpretazione è lecita, e non riesce a nascondere il filo di imbarazzo nel sentirsi “denudato”, come se fosse stato colto in flagrante, sorprendendosi di come non sia la prima volta che quell’intervistatore (mi spiace ma proprio non ricordo il nome né posso accedere in Rete, adesso che scrivo, per controllare) dimostri una capacità di analisi tanto approfondita, finanche nei dettagli. Che evidentemente non sono proprio dettagli – l’idea di inserire già nel titolo un artificio che è poetico, forgiandolo in un doppio senso che comunque riporta alla totalità (devastata e devastante, vile e avvilente, assaltata e assaltante) di quello che viene dopo il titolo stesso, all’insieme complesso di questo Zibaldone contemporaneo. O, se sono dettagli, lo sono in maniera fondativa per la coscienza autoriale e per il rapporto che l’Autore instaura con la propria Creazione per il tramite di questi dettagli (d’altronde anche le serrature sono dettagli, nell’interezza di un edificio). Bene: l’ipotesi del doppio senso era anche una mia ipotesi, quindi in quel momento era come se Genna stesse parlandomi direttamente. Mi sono sentito rinfrancato. Così è passato il pomeriggio di venerdì 9 aprile, San Demetrio.

Poi in Feltrinelli, dove ho letto in piedi il capitolo “Il meridiano zero” di Assalto, e il contributo di Edoardo Nesi alla riedizione per la collana I Quindici (sempre minimum fax) di Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace. Edoardo Nesi è il titano che ha tradotto Infinite Jest, svolgendo un lavoro oltreumano di cui ogni singolo nervo di ogni singola persona che sia interessata alla cultura (in questa nazione che sta facendo – e ha già fatto – di tutto per estirpare il seme di un approccio vero, ingenuo e coraggioso verso le manifestazioni della cultura) dovrebbe essergli grato. Scrive in due pagine una delle testimonianze più toccanti, umane e commoventi che si possano scrivere per l’autore americano. Conclude scrivendo di aver “imparato a vivere da un suicida”. Io stento a trattenere le lacrime, c’è una comunicazione orbitale di insegnamenti che si propagano da tempi e spazi – galassie – fuori da qualsiasi legge conosciuta, sento che anch’io imparo a vivere un poco alla volta, e in questo caso sto imparando a vivere grazie alle parole di un traduttore che scrive di aver imparato a vivere grazie alle parole dello scrittore più fenomenale, geniale e coraggioso dell’ultima letteratura made in U.S.A. Che se n’è andato, suicida, quasi due anni fa. Non so chi ringraziare prima, fra David Foster Wallace, Edoardo Nesi, la minimum fax nella persona di Martina Testa. Sento la tenerezza dell’amore, il caldo dentro gli occhi, la dolcezza lungo la gola. Affondo il viso nel libro, per pudore di farmi vedere commosso – di questi tempi è lecito commuoversi solo su Uomini e Donne. (Anche adesso che scrivo, vedo la tastiera sfocata, e le lettere bianche sugli angoli in alto a sinistra dei tasti che si allungano, nella deformazione salina del pianto che è sempre sull’orlo di traboccare. E che trabocchi, allora. Che sia quello che deve essere. Che mi si spacchi il cuore, per una volta, che ritorni molle, una polpa di tessuti e sangue vivo, che mi invada la consapevolezza. A cos’altro può servire questo tempo chiamato vita, se non a intenerirsi.)

Quindi esco e ragiono sull’imparare a vivere, con le cuffie alle orecchie, percorrendo a piedi Via dei Fori Imperiali nell’ora in cui sale ancora un po’ del freddo residuo dell’inverno trascorso, e una massa di luce anodizzata e morente avvolge le antichità, sprigionando un colore opaco e a basso contrasto, gassoso, omogeneo, come quello dei telegiornali nei TV color degli anni Ottanta. Poi, sul 3 direzione Thorvaldsen, penso che scenderò prima, per fare un salto alla libreria Zafary in Via dei Volsci, perché ho come la sensazione di poter trovare una copia di Assalto a un tempo devastato e vile (versione 3.0) di Giuseppe Genna, minimum fax 2010, al cinquanta per cento del prezzo di copertina. Me lo merito (imparare a vivere – una “radicalità traumatica” e traumatizzante – l’estensione del desiderio – il dominio, fottuto dominio, della mineralità – essere un altro – chi sono io – soggetto grammaticale – formalità logica – sede dell’avanzamento – un orizzonte mobile – mi rincorro e rifuggo – costretto e sbragato – io tra virgolette – tra parentesi – tempo di ridefinizione – determinare la resistenza – disarticolarsi). E ho avuto culo, certo.
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giovedì 8 aprile 2010

Hamburger Man

“Prova a muovere il braccio sinistro”. Tentativo non riuscito.

“Ora quello destro”. Tentativo non riuscito.

“Niente proviamo con le gambe, prima la sinistra”. Tentativo non riuscito.

“Destra”. Tentativo non riuscito.

Potessi almeno parlare.

L'annuncio diceva: facile e immediato guadagno direttamente da casa.

Ed ora eccomi qua, disteso su un letto, completamente immobilizzato. Un'inserviente che mi cambia il pannolone una volta ogni 6 ore, due cordoni ombelicali che conducono dalle mie braccia fino a due flebo disposte una per lato. Una serve ad alimentarmi, l'altra è la causa della mia immobilità. Sono una cavia della Mayer, la regina delle multinazionali farmaceutiche. Il loro porcellino d'India.

Stavo meglio quando facevo l'hamburger man a Boston. Avevo anche ottenuto una certa notorietà grazie ad una foto circolata sul web all'indirizzo: http://bostonist.com/attachments/boston_caroline/hamburger-man.jpg .

Non avrei mai pensato di dover rimpiangere quei momenti. Ma in questo momento rimpiango pure il giorno in cui trovai la mia ragazza a letto con la sua miglior amica filmate dal quarterback titolare della squadra di football del collage. Insultai le loro madri, lui mi ruppe la braccia, e mi feci 6 mesi di riabilitazione intensiva, ma almeno avevo sempre potuto continuare a parlare.

Come vorrei poter urlare in questo momento, crocifiggere tutti i parenti di questi stronzi che da due settimane mi hanno segregato in casa mia, spogliato della dignità e rivestito con un camice.

Il liquido che mi stanno somministrando è di colore bluastro, quello dei nobili insomma. Nella fusione col mio sangue deve assumere un colore violaceo simile a quello che lentamente stanno assumendo i miei piedi, le mie gambe, le mie braccia. Della mia faccia invece non ho più notizie da un mese.

“Credo in Dio, lo giuro, il sole gira attorno alla terra, che è rigorosamente piatta, e l'uomo è al centro dell'universo,e poi... si, viva la Mayer, devo tutto a questa società, evviva il suo presidente, e questa stanza non è poi male, anche la signora dei pannoloni è simpatica, peccato...”. L'uomo disteso apparentemente privo di vita sul letto, avrebbe volentieri voluto dire queste parole, anche se magari prive di senso, ma lo stato di immobilità in cui riversava glielo impediva con tale caparbietà che non ne uscì nemmeno un bisbiglio.

“Il referto è di morte per soffocamento dovuto alla cattiva reazione al farmaco H610. Vediamo di far sparire il corpo al più presto. E mi raccomando signorina Richardson, si ricordi di mettere l'annuncio sui giornali, non è ancora natale, non è ancora tempo di feste”.

“Prova a muovere il braccio sinistro”. Tentativo non riuscito.

“Ora quello destro”. Tentativo non riuscito.

“Niente proviamo con le gambe, prima la sinistra”. Tentativo non riuscito.

“Destra”. Tentativo non riuscito.

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mercoledì 7 aprile 2010

Il dizionario

La decisione fu quella di partire da una parola a caso, estrapolata dalla lotteria delle 1323 pagine del dizionario Devoto-Oli che si trovava già lì sulla scrivania. Il gioco consisteva nel, anzi no, questo non ha importanza. Fatto sta che la parola fosse “incrèscere” o lett. Rincrescere. Provare un senso di dispiacere, rammarico o rimorso. Un'occasione mancata che acquista importanza per la sua assenza, la scelta sbagliata di fronte al bivio, quella verso la strada sbarrata. L'altra strada chissà. La scalata alle vette più alte del ParaDisco, lo slalom tra la merda, o il centro esatto nella comoda. Il rammarico non deve esistere, il punk non è morto. Quante pagine si potrebbero recuperare asportando le parole che non dovrebbero esistere da questo dizionario?

La sorte scelse muraglia come seconda parola. “Elemento insormontabile di separazione”. La deriva esponenziale della proprietà privata che ha dato il via alla disuguaglianza fra gli uomini, il confine; e stramaledetto sia il primo allocco che ci ha creduto. Ecco un'altra parola che si potrebbe tranquillamente togliere, cancellare, magari con un po' di sputo, la saliva è un ottimo solvente.

Ma ce ne sono a bizzeffe, almeno una per pagina. Provate, aprite il vostro impolverato dizionario, facendo attenzione a non strappare le pagine che sono rimaste incollate fra di loro, fatelo al cesso durante il momento più importante della giornata, o comodamente seduti sul divano, e cancellate. Grattate bene, fino a che non ne rimane che l'alone. Quanti buchi, quanto sangue. Accolito, banca, combattentismo, delimitare, erario, fustigazione, governo, infetto, knut, legionario, marine, noioso, olocausto, piazzaforte, quarantore, recinto, satana, trattenuta, usura, vaticano, xenofobia, zar. E' ricco il nostro dizionario, un pozzo a cui attingere senza remore. La sua pancia è piena di parole sporche di sangue, il suo intestino è attanagliato dal virus intestinale permanente. E noi con lui. Siamo il suo verme solitario, ci cibiamo delle sue parole infette tutti i giorni. Siamo sporchi come lui, benvenuti tra i rifiuti.
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