lunedì 1 marzo 2010

Romanzo infinito / prima sequenza

di Kharim Chaloub
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Non venire mai alla luce può essere il più grande dei doni
Sofocle
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Non c’è niente di meglio per prepararsi a morire che scrivere un libro. Se poi fosse il libro mai scritto, la morte sarebbe perfino dolce. E la voragine meno profonda.

Il libro dei libri dovrebbe contenere il mondo ma anche superarlo. Ucciderlo nel corpo per resuscitarlo nel sogno. Di tutte le infinite strade dell’uomo, dovrebbe tracciarne una sola senza fine. Di tutte le visioni finite dell’universo, vedere finalmente solo la fine. E se solo un disincarnato può questo sguardo, allora un uomo dovrebbe scrivere come se fosse morto. Anche se un uomo non saprà mai di essere morto.

Sono qui e ora. Da solo, in questa stanza vuota e in penombra. Sto per morire perché l’aorta mi è scoppiata nel petto. Posso quasi sentire il sangue riempire le cavità interne. Come un velluto bagnato e caldo coprire la gola. Sto per fare l’esperienza della morte. Aspetto che arrivi. I secondi passano e non succede nulla. Sono ancora qui e ora. Poi, un secondo dopo, non sono più. È arrivata la fine, senza che la percepissi. Sono morto senza conoscere la morte. Un momento prima la stavo aspettando, il momento dopo era già passata. Come ha intuito il diafano carnefice di Littell, non si può provare la morte perché la morte non esiste.

Un solo libro per la vita. Tutta la vita per un libro. Come la vita, unico e irripetibile. Come la morte, definitivo e ineffabile.

È questo il libro che sto scrivendo, prima che gli occhi alati di Vanth mi trovino. Il libro della fine.

Orbe di Dentro

La trama del sogno

Mia figlia ha aperto la porta e adesso mi fissa con gli occhi dilatati dal terrore. Dall’anticamera dietro di lei entra un morto grasso e scarmigliato. Uno straccio lurido infilato sulle spalle gli scopre il ventre pallido e gonfio. Una ferita ricucita a maglie larghe e profonde lo attraversa dalla spalla sinistra fino al pube mangiato dai topi. L’occhio destro ridotto ad una fessura marcia nella faccia annerita.

“Sono tornato per macellarvi tutti”, dice con voce triste, senza muovere le labbra, mentre avanza deciso verso di me.

Faccio un passo a ritroso, un altro ancora e cado supino sul letto. Sento le palpebre sbattere indietro con uno scatto sordo e sono finalmente sveglio. Fuori è ancora buio e penso che prima o poi incontrerò quel morto, forse saremo vicini di tavolo all’obitorio. Le teste girate l’una di fronte all’altra, ci guarderemo senza riconoscerci.

Le mani dolorosamente rannicchiate dietro la nuca, mi rigiro nel letto senza requie. Finisco pancia a terra a nuotare in un mare di alghe grigie e umide che mi riempie la bocca. Il ginocchio sinistro infisso nell’incavo del ginocchio destro a spremere il sangue dall’arteria. Come vorrei dormire il sonno di venti o trenta anni fa, quando l’aria era alta e leggera e la notte non era una maledetta unghia incarnita che graffia tra le scapole e penetra nell’inguine.

Il mattino prima avevo sognato di essere a Gozo. Nella sera di vento salmastro c’era una lunga strada in salita gonfia di pietre scivolose che portava a una cappella e a un grande crocifisso di legno. Una vecchia vestita di nero stava china sull’uscio di casa a snocciolare tra le dita secche un lungo rosario fatto di piccoli denti bianchi e quadrati tutti uguali. Salivo a fatica la rampa di pietra, ventre a terra, scivolando indietro ad ogni passo e tenendomi con le mani alle pietre muschiose. A un tratto la vecchia mi ha guardato e ha aperto la bocca per dire qualcosa. In quel momento, il selciato ha avuto un sussulto verso l’alto. Ho perso la presa e sono caduto all’indietro urlando, trascinato verso il basso da una vertigine irresistibile, sempre più velocemente in un vortice roteante per una eternità.

Mi sono svegliato, la gola esplosa, ancora con le mani rattrappite dietro la nuca, nel gesto di resa di chi sta per essere fucilato. Niente male come messaggio simbolico. L’inevitabile caduta nel Tartaro della perdizione dopo avere appena intravisto la luce della salvezza. Da quando ho superato i quaranta, si sono incanutiti anche i sogni. L’orrore rassegnato e malinconico del primo Ingmar Bergman.

Bergman e la teoria della paura epocale. L’orrore adolescenziale del Freddy Krueger di Nightmare e il brivido puberale di Scream, intrisi delle facili pulsioni sessuali della carne fresca da macellare, contro l’incubo senile de Il posto delle fragole. La bara che scivola lentamente dal carro funebre nella via deserta, il coperchio che si apre inevitabilmente a mostrare la mano viva di un cadavere invisibile.

Tutti i vecchi prima o poi si sentono così, atrocemente vivi in un corpo morto.
Quanto tempo impiegherà ancora l’incudine per toccare il fondo del pozzo?

Sono nello studio ora, seduto davanti allo schermo bianco. Il ronzio della ventola mi richiama al sonno. Ma non posso dormire, devo scrivere, anzi riscrivere I privilegi di Stendhal. Devo farlo adesso, subito, prima di incontrare nuovamente l’amico dalla lunga cicatrice.

Il buon Marie-Henri Beyle, seduto innanzi a un foglio bianco la mattina del 10 aprile 1840, doveva preoccuparsi delle sue emicranie e dell’innamoramento nascente per la misteriosa Earline. Malediceva per l’ennesima volta la sua faccia rincagnata da nain e desiderava avere una mentula comme le doigt indicateur, pour la dureté et pour la mouvement. Il realismo romantico del grande autore de La certosa e de Il rosso e il nero si risolveva nel desiderio di conservare in perfetta salute il suo stelo di giada, senza problemi di soldi fino alla morte per un colpo apoplettico nel proprio letto.

Io invece, questa mattina senz’alba del 1 gennaio 2001, devo preoccuparmi del mio occhio sinistro che ha ripreso a sanguinare e di questa benedetta turca che non si decide a farsi viva. Devo preoccuparmi che ormai da mesi non riesco a scrivere più di due pagine di seguito e che presto la cura esaurirà il suo effetto.

Sono qui, lucido come un martire alle quattro di mattina, ad invocare Stendhal. E sono un senzadio pronto a vendere al diavolo la mia anima e anche quella di mia figlia per conservare in perfetta salute il mio stelo di giada, senza problemi di soldi fino alla morte per un colpo apoplettico nel mio letto.

Ma quest’anno la Terra si troverà 623 giorni dietro la cometa Tempel e il 17 novembre, per la prima volta dopo 33 anni, lo sciame meteorico delle Liridi raggiungerà il climax astronomico.

Sulla terra si abbatterà una tempesta fotonica di proporzioni inaudite e i Nephilim saranno risucchiati dal gorgo di luce nell’Orbe di Dentro.
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