martedì 18 maggio 2010

Romanzo infinito / sesta sequenza


Orbe di Dentro

Missa brevis
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Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio
e con poche pasticche, già al secondo o terzo
giorno si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua,
che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio.
Mario Tobino
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Dominus. Paenitentia

[30 luglio 2006 – 00.53]

«Non mi piace, Ariel... agli infrarossi si vede del bianco sui tetti. Confermo, il visore HUD alla massima scansione. Sui tetti sotto il minareto della moschea sono stese delle lenzuola bianche. Sembra una tendopoli di lenzuola e se ci sono dei civili là dentro...»

«Te l’ho già detto, Z43, non fare storie adesso... i droni hanno fotografato tutta la zona di strike a bassa quota, nei minimi dettagli. Con quelle lenzuola ci coprono i loro fottuti missili…vai avanti con la procedura, Z43.»

Gloria. Precatio

La prima notte conto settantasette porte. Mio fratello cammina davanti a me in un lunghissimo corridoio sotterraneo illuminato a stento da una fila di lampade a petrolio appese ai muri. Gavriel continua ad aprire porte su porte con un mazzo di chiavi verdi che sembrano alghe. Il sogno non ha suoni né rumori, come se mi avessero imbottito le orecchie di ovatta. Mia madre ci segue sorridendo appena, con la fronte imperlata di sudore. Vorrei asciugarla quella fronte così trasparente ma sono nudo eccetto gli anfibi neri ai piedi. Non ho freddo né caldo. Non sento niente, voglio solo andare avanti. Voglio uscire da questa catacomba che si apre nella nostra vecchia cucina della casa di Ramat Gan. Prendere i miei vestiti nell’armadio di quercia in fondo al corridoio. Ogni porta si apre su un’altra porta dopo pochi metri, all’infinito. Per un’eternità. Poi ad un tratto le mie orecchie riprendono a udire. Mia madre sta cantando con un sussurro Sch´av b´ni schaw bimnucha. Dopo le prime parole della ninna–nanna preferita di casa Sharon, so di essere di fronte all’ultima porta. Mio fratello non la apre come le altre. Si ferma ad accarezzare con la mano una forma graffita nel legno grigio, יהךה. La riconosco. Era nella Bibbia della sinagoga. È il tetragramma sacro di Adonay. Il nome impronunciabile di Dio. Io sarò quel che sarò, sussurra mia madre dietro di me, ricordando la lingua che non ha mai voluto parlare.

La porta si apre docilmente in un soffio sotto le mie dita, ma non vedo nulla perché


mi sveglio nel buio, la faccia bagnata da un sudore di ghiaccio. Fania continua a dormire la testa affondata nel cuscino con l’aria di essere morta. L’abbondante libagione alcolica della sera prima sembra averla sfinita. È il suo modo di dimenticare quello che io non dimenticherò mai. Tutti quei bambini morti. Al mio rientro ieri notte l’ho trovata accucciata sul divano a dondolare con un bicchiere in mano, gli occhi vuoti. La televisione era accesa e trasmetteva l’ennesimo servizio sui soccorsi. Appena mi ha visto, si è alzata senza una parola. Barcollava. Ho dovuto sostenerla con un braccio intorno alla vita perché non cadesse. Mi ha puntato i gomiti sul petto guardando a terra e mi ha spinto lontano da sé con un lamento di gola che mi ha fatto venire i brividi.

Sento formicolare tutto il corpo e la testa affogare nel vuoto. Mi alzo e vado in cucina a bere un po’ d’acqua. La finestra sull’acquaio è sollevata a metà e dalla spiaggia vicina il vento non porta con sé l’odore marcio del mare di Jaffa. Questa notte nell’aria c’è il profumo dei cedri. Come tre anni fa. Io e Fania eravamo a Sidone sul finire dell’estate. Al tramonto scendevamo nella piccola spiaggia davanti al Castello del Mare. E il mare aveva lo stesso profumo aspro. Solo tre anni fa. Fania aveva già Nathan nella pancia e facevamo progetti. Che non prevedevano di bombardare qualche villaggio intorno.

Non so quante notti dovranno passare prima che io trovi una via di uscita. Una ragione al fatto che non posso tornare indietro a quella sera. Un modo per continuare a vivere senza pensare. Quante volte ancora mi sentirò perduto stringendo Nathan sul mio petto? La mattina del ritorno dalla missione, sono entrato nella sua stanza come un ladro, con il terrore che si svegliasse e mi chiedesse cosa avevo fatto. Da quella mattina, non posso pensare più a lui senza sentirmi un assassino. Quando vedo Nathan, il tizzone ardente che ho nel petto si immerge nel lago dei suoi occhi grandi e neri e frigge e fuma e mi fa piangere per il dolore. Perché, è assurdo lo so, ho paura di me. Ho paura di fargli del male.

Come se fossi uno di quei bastardi di sceicchi ulema che si nascondono nelle case della gente dei Territori e banchettano con il sangue dei loro figli. Li mandano a farsi esplodere alle fermate degli autobus, mentre loro se ne stanno al sicuro nell’ombra delle loro moschee a lavare il cervello dei prossimi martiri. E noi? Il tempo di raccogliere i nostri morti dall’asfalto delle città e andiamo a bombardare con gli elicotteri le loro spelonche. Poi ci chiudiamo in casa ad aspettare il prossimo Shabbath per recitare il Kiddush su una coppa di vino. E nessuno muove più un dito per fare qualcosa. Fino alla nuova strage del nuovo kamikaze e poi di nuovo gli aerei e le bombe. Quanto può durare tutto questo, senza impazzire tutti in massa, arabi ed ebrei? Ma forse siamo già tutti pazzi furiosi se pensiamo di difenderci dai razzi di Hezbollah andando a massacrare degli innocenti. Che sia maledetto Olmert e tutto il suo branco di politicanti macellai di guerra che pensano di avere le mani più pulite dei becchini di Tsahal.

Maledetto io tre volte, il giorno che ho pilotato il primo F–16, mi si potevano seccare le mani. Con Heyl Ha'Avir per difendere la pace di tutti dall’alto dei cieli. Il vero criminale è Klausner, con i suoi slogan di merda. Il suo sostegno psicologico ai combattenti, solo altri slogan di merda. I suoi corsi di addestramento “im siebenten Rimmel”, solo un altro lavaggio del cervello. Piccoli ricatti e piccoli premi, uno sull’altro, grado per grado, giorno dopo giorno. Per costruire la scimmia assassina. Ma questa è stata l’ultima volta che la scimmia ha premuto il bottone. Almeno potessi sapere se è stata veramente una bomba a teleguida laser a far crollare l’edificio, come dicono.

Domenica notte eravamo in tre ad avere gli MK–84 a bordo.

Sanctus. Veritas

Allah, dammi il coraggio di guardare in faccia l’orrore.

Ancora dormivo quando questa mattina Nayef mi ha chiamato dalla Mezzaluna Rossa di Tiro. La sua voce era strana, sembrava parlare con difficoltà. Nelle cantine dell’edificio crollato c’erano molti profughi dai villaggi vicini. Famiglie in cammino per Beirut. Qualcuno aveva detto loro che il posto era sicuro per la notte.

C’è un’aria di desolazione sotto il sole ruggente di Qana. Nelle strade la gente è poca e ci guarda con la febbre negli occhi. Non ci sono madri intorno a noi, solo i primi morti sulle carriole. Qualche bambino con la faccia bianca e le narici piene di sangue. Su una stuoia in cortile, il corpo impolverato e scomposto di una donna coperta a metà da un lenzuolo a fiori azzurri. La palazzina è proprio sotto il minareto della moschea. I tre piani si sono sbriciolati sotto il peso del tetto di cemento armato. Un missile teleguidato, dicono. Di fabbricazione americana, a giudicare dai frammenti. Forse un MK–84. Novecento libbre di esplosivo intelligente.
Nayef mi viene incontro con un fagotto bianco tra le braccia. Ha gli occhi arrossati e l’aria di chi sta salendo sul patibolo. Mi dice che forse non c’è più nessuno vivo sotto le macerie. Mi dice di mettere la mascherina e di segnare lo scavo. Come un archeologo arrivato troppo presto nella necropoli.

Dopo pochi minuti la camicia mi si attacca alla schiena e preferisco continuare a scavare a torso nudo. Poi, subito sotto il frontone del tetto, in cima ad un mucchio di terra e cavi divelti, quello che sembra il tubo bianco di una stufa. Ci sono proprio sopra e una mano fredda mi strizza lo stomaco. Non è un tubo, è un braccio sporco di gesso.

Di colpo, dall’altra parte delle macerie, una voce maschile getta un urlo come un macigno che cade. Sobbalzo e per poco non cado all’indietro nella scarpata di pietre e detriti. Poi il grido si appuntisce in un sibilo acuto senza fine che non può essere sentito senza impazzire. E si perde altissimo in questo mare cobalto scuro che Qana ha per cielo. Alla fine muore in un lamento strozzato, un gorgoglio in gola.

Le mie mani scavano con furia ma incontrano solo altra terra e altre pietre fino a quando non la vedo in faccia, sotto le mie ginocchia affondate nel tumulo. Una bambina distesa sul fianco, nel fondo, con un braccio spezzato e l’altro sul viso gonfio di polvere. Tre anni, forse quattro. La bocca è piena dei calcinacci che l’hanno soffocata. Il pigiama sporco di terra strappato sulla piccola spalla vuota. Mi guarda fisso con un occhio spalancato del verde più smeraldo che c’è al mondo. L’altro è perduto. L’orbita è tumefatta e piena di sangue raggrumato. Mentre la sollevo piano sotto le ascelle, penso a sua madre e suo padre. E desidero che siano morti anche loro. Lo desidero con tutto me stesso, dal profondo delle viscere. Che la morte li salvi da questa vista. La sollevo in alto sopra le mie ginocchia e per un momento siamo entrambi senza peso e senza vita. Quando l’attiro verso di me, il suo piccolo corpo di pezza mi abbraccia come ha fatto con la madre la sera prima di morire.

Agnus. Immolatio

La seconda notte il letto si muove e vibra per qualche istante sotto l’onda d’urto di un terremoto. Ma non è un terremoto. Passano ancora Apache sulle nostre teste e i loro fari illuminano a giorno i cortili mangiati dal salnitro dove i nostri figli giocano alla morte. Io non sento niente e non vedo niente. Sono di nuovo davanti alla porta del sogno. La porta grigia con il tetragramma. È rimasta aperta dall’ultima volta. Spalancata su uno stanzone basso in penombra. Mia madre e mio fratello devono essere in un altro sogno, perché sono solo. Forse si vergognano di me e non sogneremo mai più insieme. A terra ci sono tre file di corpi dentro sacchi neri. Ogni fila conta quindici unità, allineate in parallelo con la parete illuminata a giorno dai neon dell’obitorio. Il nome, l’età e la provenienza del cadavere sono stati scritti con un pennarello giallo su tutti i sudari di plastica. Prima in arabo, poi in inglese. Leggo i nomi ad alta voce. Come nel primo sogno, non sento la mia voce, ma sento il mio sterno aprirsi lentamente. Si apre piano, con un dolore sordo al centro del petto e ingoia ogni nome, ogni parola. Mehdi Hashem sette anni Qana, Hussein al–Mohamed dodici anni Qana, Abbas al–Shaloub undici mesi Qana, Khalida Chaloub quattro anni Qana…

Mi accorgo che sul tavolo di dissezione al centro della stanza c’è anche un sacco senza nome. L’unico non identificato. Non si devono aprire i sudari dei bambini. Non si devono contaminare i loro corpi con le mani impure di chi ha peccato. Ma è l’unico sacco senza nome. Devo sapere. Mentre le mie mani fanno scorrere la zip, il mio sterno si richiude nella roccia.

Il volto di Nathan è bello e sereno come sempre, sembra dormire. Ma è tutto bianco di gesso.
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