martedì 18 maggio 2010

Romanzo infinito / sesta sequenza


Orbe di Dentro

Missa brevis
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Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio
e con poche pasticche, già al secondo o terzo
giorno si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua,
che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio.
Mario Tobino
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Dominus. Paenitentia

[30 luglio 2006 – 00.53]

«Non mi piace, Ariel... agli infrarossi si vede del bianco sui tetti. Confermo, il visore HUD alla massima scansione. Sui tetti sotto il minareto della moschea sono stese delle lenzuola bianche. Sembra una tendopoli di lenzuola e se ci sono dei civili là dentro...»

«Te l’ho già detto, Z43, non fare storie adesso... i droni hanno fotografato tutta la zona di strike a bassa quota, nei minimi dettagli. Con quelle lenzuola ci coprono i loro fottuti missili…vai avanti con la procedura, Z43.»

Gloria. Precatio

La prima notte conto settantasette porte. Mio fratello cammina davanti a me in un lunghissimo corridoio sotterraneo illuminato a stento da una fila di lampade a petrolio appese ai muri. Gavriel continua ad aprire porte su porte con un mazzo di chiavi verdi che sembrano alghe. Il sogno non ha suoni né rumori, come se mi avessero imbottito le orecchie di ovatta. Mia madre ci segue sorridendo appena, con la fronte imperlata di sudore. Vorrei asciugarla quella fronte così trasparente ma sono nudo eccetto gli anfibi neri ai piedi. Non ho freddo né caldo. Non sento niente, voglio solo andare avanti. Voglio uscire da questa catacomba che si apre nella nostra vecchia cucina della casa di Ramat Gan. Prendere i miei vestiti nell’armadio di quercia in fondo al corridoio. Ogni porta si apre su un’altra porta dopo pochi metri, all’infinito. Per un’eternità. Poi ad un tratto le mie orecchie riprendono a udire. Mia madre sta cantando con un sussurro Sch´av b´ni schaw bimnucha. Dopo le prime parole della ninna–nanna preferita di casa Sharon, so di essere di fronte all’ultima porta. Mio fratello non la apre come le altre. Si ferma ad accarezzare con la mano una forma graffita nel legno grigio, יהךה. La riconosco. Era nella Bibbia della sinagoga. È il tetragramma sacro di Adonay. Il nome impronunciabile di Dio. Io sarò quel che sarò, sussurra mia madre dietro di me, ricordando la lingua che non ha mai voluto parlare.

La porta si apre docilmente in un soffio sotto le mie dita, ma non vedo nulla perché


mi sveglio nel buio, la faccia bagnata da un sudore di ghiaccio. Fania continua a dormire la testa affondata nel cuscino con l’aria di essere morta. L’abbondante libagione alcolica della sera prima sembra averla sfinita. È il suo modo di dimenticare quello che io non dimenticherò mai. Tutti quei bambini morti. Al mio rientro ieri notte l’ho trovata accucciata sul divano a dondolare con un bicchiere in mano, gli occhi vuoti. La televisione era accesa e trasmetteva l’ennesimo servizio sui soccorsi. Appena mi ha visto, si è alzata senza una parola. Barcollava. Ho dovuto sostenerla con un braccio intorno alla vita perché non cadesse. Mi ha puntato i gomiti sul petto guardando a terra e mi ha spinto lontano da sé con un lamento di gola che mi ha fatto venire i brividi.

Sento formicolare tutto il corpo e la testa affogare nel vuoto. Mi alzo e vado in cucina a bere un po’ d’acqua. La finestra sull’acquaio è sollevata a metà e dalla spiaggia vicina il vento non porta con sé l’odore marcio del mare di Jaffa. Questa notte nell’aria c’è il profumo dei cedri. Come tre anni fa. Io e Fania eravamo a Sidone sul finire dell’estate. Al tramonto scendevamo nella piccola spiaggia davanti al Castello del Mare. E il mare aveva lo stesso profumo aspro. Solo tre anni fa. Fania aveva già Nathan nella pancia e facevamo progetti. Che non prevedevano di bombardare qualche villaggio intorno.

Non so quante notti dovranno passare prima che io trovi una via di uscita. Una ragione al fatto che non posso tornare indietro a quella sera. Un modo per continuare a vivere senza pensare. Quante volte ancora mi sentirò perduto stringendo Nathan sul mio petto? La mattina del ritorno dalla missione, sono entrato nella sua stanza come un ladro, con il terrore che si svegliasse e mi chiedesse cosa avevo fatto. Da quella mattina, non posso pensare più a lui senza sentirmi un assassino. Quando vedo Nathan, il tizzone ardente che ho nel petto si immerge nel lago dei suoi occhi grandi e neri e frigge e fuma e mi fa piangere per il dolore. Perché, è assurdo lo so, ho paura di me. Ho paura di fargli del male.

Come se fossi uno di quei bastardi di sceicchi ulema che si nascondono nelle case della gente dei Territori e banchettano con il sangue dei loro figli. Li mandano a farsi esplodere alle fermate degli autobus, mentre loro se ne stanno al sicuro nell’ombra delle loro moschee a lavare il cervello dei prossimi martiri. E noi? Il tempo di raccogliere i nostri morti dall’asfalto delle città e andiamo a bombardare con gli elicotteri le loro spelonche. Poi ci chiudiamo in casa ad aspettare il prossimo Shabbath per recitare il Kiddush su una coppa di vino. E nessuno muove più un dito per fare qualcosa. Fino alla nuova strage del nuovo kamikaze e poi di nuovo gli aerei e le bombe. Quanto può durare tutto questo, senza impazzire tutti in massa, arabi ed ebrei? Ma forse siamo già tutti pazzi furiosi se pensiamo di difenderci dai razzi di Hezbollah andando a massacrare degli innocenti. Che sia maledetto Olmert e tutto il suo branco di politicanti macellai di guerra che pensano di avere le mani più pulite dei becchini di Tsahal.

Maledetto io tre volte, il giorno che ho pilotato il primo F–16, mi si potevano seccare le mani. Con Heyl Ha'Avir per difendere la pace di tutti dall’alto dei cieli. Il vero criminale è Klausner, con i suoi slogan di merda. Il suo sostegno psicologico ai combattenti, solo altri slogan di merda. I suoi corsi di addestramento “im siebenten Rimmel”, solo un altro lavaggio del cervello. Piccoli ricatti e piccoli premi, uno sull’altro, grado per grado, giorno dopo giorno. Per costruire la scimmia assassina. Ma questa è stata l’ultima volta che la scimmia ha premuto il bottone. Almeno potessi sapere se è stata veramente una bomba a teleguida laser a far crollare l’edificio, come dicono.

Domenica notte eravamo in tre ad avere gli MK–84 a bordo.

Sanctus. Veritas

Allah, dammi il coraggio di guardare in faccia l’orrore.

Ancora dormivo quando questa mattina Nayef mi ha chiamato dalla Mezzaluna Rossa di Tiro. La sua voce era strana, sembrava parlare con difficoltà. Nelle cantine dell’edificio crollato c’erano molti profughi dai villaggi vicini. Famiglie in cammino per Beirut. Qualcuno aveva detto loro che il posto era sicuro per la notte.

C’è un’aria di desolazione sotto il sole ruggente di Qana. Nelle strade la gente è poca e ci guarda con la febbre negli occhi. Non ci sono madri intorno a noi, solo i primi morti sulle carriole. Qualche bambino con la faccia bianca e le narici piene di sangue. Su una stuoia in cortile, il corpo impolverato e scomposto di una donna coperta a metà da un lenzuolo a fiori azzurri. La palazzina è proprio sotto il minareto della moschea. I tre piani si sono sbriciolati sotto il peso del tetto di cemento armato. Un missile teleguidato, dicono. Di fabbricazione americana, a giudicare dai frammenti. Forse un MK–84. Novecento libbre di esplosivo intelligente.
Nayef mi viene incontro con un fagotto bianco tra le braccia. Ha gli occhi arrossati e l’aria di chi sta salendo sul patibolo. Mi dice che forse non c’è più nessuno vivo sotto le macerie. Mi dice di mettere la mascherina e di segnare lo scavo. Come un archeologo arrivato troppo presto nella necropoli.

Dopo pochi minuti la camicia mi si attacca alla schiena e preferisco continuare a scavare a torso nudo. Poi, subito sotto il frontone del tetto, in cima ad un mucchio di terra e cavi divelti, quello che sembra il tubo bianco di una stufa. Ci sono proprio sopra e una mano fredda mi strizza lo stomaco. Non è un tubo, è un braccio sporco di gesso.

Di colpo, dall’altra parte delle macerie, una voce maschile getta un urlo come un macigno che cade. Sobbalzo e per poco non cado all’indietro nella scarpata di pietre e detriti. Poi il grido si appuntisce in un sibilo acuto senza fine che non può essere sentito senza impazzire. E si perde altissimo in questo mare cobalto scuro che Qana ha per cielo. Alla fine muore in un lamento strozzato, un gorgoglio in gola.

Le mie mani scavano con furia ma incontrano solo altra terra e altre pietre fino a quando non la vedo in faccia, sotto le mie ginocchia affondate nel tumulo. Una bambina distesa sul fianco, nel fondo, con un braccio spezzato e l’altro sul viso gonfio di polvere. Tre anni, forse quattro. La bocca è piena dei calcinacci che l’hanno soffocata. Il pigiama sporco di terra strappato sulla piccola spalla vuota. Mi guarda fisso con un occhio spalancato del verde più smeraldo che c’è al mondo. L’altro è perduto. L’orbita è tumefatta e piena di sangue raggrumato. Mentre la sollevo piano sotto le ascelle, penso a sua madre e suo padre. E desidero che siano morti anche loro. Lo desidero con tutto me stesso, dal profondo delle viscere. Che la morte li salvi da questa vista. La sollevo in alto sopra le mie ginocchia e per un momento siamo entrambi senza peso e senza vita. Quando l’attiro verso di me, il suo piccolo corpo di pezza mi abbraccia come ha fatto con la madre la sera prima di morire.

Agnus. Immolatio

La seconda notte il letto si muove e vibra per qualche istante sotto l’onda d’urto di un terremoto. Ma non è un terremoto. Passano ancora Apache sulle nostre teste e i loro fari illuminano a giorno i cortili mangiati dal salnitro dove i nostri figli giocano alla morte. Io non sento niente e non vedo niente. Sono di nuovo davanti alla porta del sogno. La porta grigia con il tetragramma. È rimasta aperta dall’ultima volta. Spalancata su uno stanzone basso in penombra. Mia madre e mio fratello devono essere in un altro sogno, perché sono solo. Forse si vergognano di me e non sogneremo mai più insieme. A terra ci sono tre file di corpi dentro sacchi neri. Ogni fila conta quindici unità, allineate in parallelo con la parete illuminata a giorno dai neon dell’obitorio. Il nome, l’età e la provenienza del cadavere sono stati scritti con un pennarello giallo su tutti i sudari di plastica. Prima in arabo, poi in inglese. Leggo i nomi ad alta voce. Come nel primo sogno, non sento la mia voce, ma sento il mio sterno aprirsi lentamente. Si apre piano, con un dolore sordo al centro del petto e ingoia ogni nome, ogni parola. Mehdi Hashem sette anni Qana, Hussein al–Mohamed dodici anni Qana, Abbas al–Shaloub undici mesi Qana, Khalida Chaloub quattro anni Qana…

Mi accorgo che sul tavolo di dissezione al centro della stanza c’è anche un sacco senza nome. L’unico non identificato. Non si devono aprire i sudari dei bambini. Non si devono contaminare i loro corpi con le mani impure di chi ha peccato. Ma è l’unico sacco senza nome. Devo sapere. Mentre le mie mani fanno scorrere la zip, il mio sterno si richiude nella roccia.

Il volto di Nathan è bello e sereno come sempre, sembra dormire. Ma è tutto bianco di gesso.
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Il capro


La sacralità delle mura domestiche. Il baluardo della cultura borghese, il nido dove l'uccello si va a riposare dopo la caccia. Ma se proviamo a digitare "mura domestiche" su qualsiasi motore di ricerca, invece di trovare rimandi alla tranquillità e all'intimità del focolare, compaiono link ad elenchi di stupri e violenze che al loro interno hanno preso atto.
L'uccello forse non aveva poi così tanta voglia di riposare.

Quelle quattro mura difese con i denti dalle pisciate canine da uomini che la notte preferiscono farsi pisciare in bocca. Mai alla luce però. Una sorta di reazione fotofobica accompagna lo scorrere delle ore - e che le tende siano ben tirate! Solo luce artificiale, dunque, per la natura umana.

Oggi piove. Anzi no, oggi pioveva, ha smesso da poco. Non sarà bastato a ripulire questa Roma. Si vede che gli angeli non avevano bevuto abbastanza. E se la purificazione può venire da una pisciata, allora forse quel signore di prima aveva ragione. Il rito è pronto, la catarsi può manifestarsi, l'unico problema è che il capro espiatorio è l'uomo stesso, gravato dei "peccati", che si avvia verso la rupe a dieci chilometri da Gerusalemme. Pennac aveva la vista lunga.

E' un cortocircuito, il serpente che si morde la coda, un percorso che parte dall'uomo e che come assioma per il suo completamento prevede il sacrificio dell'uomo stesso. E con l'elettricità non si scherza! Lo insegnano pure ai bambini, assieme a quella storia degli angeli, e a babbo natale.

Ben vengano quindi le mura domestiche, che più che un nido a questo punto ricordano più una grotta dove il capro si va a nascondere, nella speranza di non fare mai parte del Korbanot.
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giovedì 13 maggio 2010

Romanzo infinito / quinta sequenza


Orbe di Fuori

Di vita in morte

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A Qanah l’acqua si tramuta in sangue

e il deserto si mangia i cuori.
L.F.M.

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Umani, figli miei, sono tornato.

Rallegratevi, sono tornato nel vostro tempo di mezzo per macellarvi tutti con dolcezza. Carne della mia carne, fiato del mio fiato, vi amo tutti più di ogni cosa che mai sia stata nominata. Per questo spremerò dalle vostre membra il latte divino della paura e me ne nutrirò fino all’ultima goccia, prima di accompagnarvi uno per uno oltre la soglia di Belial. Al di là di quella soglia non c’è nessuna luce ad aspettarvi perché la luce può risvegliare i morti. E voi spettatori della Via Crucis in attesa di essere guardati morire, non vi lascerò mai soli. Io vi guarderò morire fino all’ultimo istante di agonia. E nessuno potrà mai turbare il nostro idillio, perché Io sono colui che dimora dentro. “Super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et portae inferi non praevalebunt adversus eam”. Non è mai stato scritto che l’inferno non vivrà, solo che alla fine non prevarrà. Molti tempi devono ancora venire prima della fine. Fino all’ultimo tempo, mi amerete. Amatemi come se fosse una vostra scelta. Lo dico per voi. Vi sarà più facile mietere.

Non abbiate timore di piangere i vostri morti. Solo, abbassate le palpebre del giorno e fuggite la luce come vetriolo negli occhi. Lasciate dormire i vostri morti con la faccia affondata nella terra e le mani che si sono indurite. Le mani dure dei morti aprono la strada nel roveto in fiamme sul monte Horeb. Voi stringete le mani dei morti e dite che non possono più sentire. Io vi dico che sono le vostre mani a non poter più sentire le mani dei morti.

Voi Uomini di Mezzo vi perdete nella valle di ossa aride del mondo in cerca di Yahweh. Le narici dilatate, aspirate l’aria di vampa davanti a voi. Gli occhi velati di cenere e lacrime, alzate la testa sopra di voi. Non c’è niente davanti a voi né sopra di voi. Da sempre io sono alle vostre spalle, anche quando non ci sono.

Io non sono Yahweh. Non sono Adonay. Non sono Elohim. Non chiamatemi con l’impronunciabile nome di Dio. Chiamatemi con i nomi della luce e dell’ombra, della terra e del sangue. Quando uccidete in nome di Dio, state uccidendo in nome mio. Non gettate il vostro sacrificio al vento di nomi mai nominati dall’Antico degli antichi. Ascoltate ciò che è scritto.
Ecco, così come è scritto, vi restituisco il cadavere del figlio degli uomini, non mi amerete fino all’ultimo tempo per questo?

È stato scritto.
Avete moltiplicato i morti in questa città: avete riempito le strade di morti.
ו הִרְבֵּיתֶם חַלְלֵיכֶם, בָּעִיר הַזֹּאת; וּמִלֵּאתֶם חוּצֹתֶיהָ, חָלָל.
I cadaveri che avete ammucchiato nel mezzo della città sono la carne e questa città è la caldaia; ma sarete condotti in cammino fuori da Babilonia.
ז לָכֵן, כֹּה-אָמַר אֲדֹנָי יְהוִה, חַלְלֵיכֶם אֲשֶׁר שַׂמְתֶּם בְּתוֹכָהּ, הֵמָּה הַבָּשָׂר וְהִיא הַסִּיר; וְאֶתְכֶם, הוֹצִיא מִתּוֹכָהּ.
La spada vi spaventa; ebbene manderò contro di voi la spada, oracolo di Dio.
ח חֶרֶב, יְרֵאתֶם; וְחֶרֶב אָבִיא עֲלֵיכֶם, נְאֻם אֲדֹנָי יְהוִה.
E vi condurrò in cammino fuori della città e vi consegnerò in mani straniere e per mezzo di stranieri eseguirò la sentenza contro di voi.
ט וְהוֹצֵאתִי אֶתְכֶם מִתּוֹכָהּ, וְנָתַתִּי אֶתְכֶם בְּיַד- זָרִים; וְעָשִׂיתִי בָכֶם, שְׁפָטִים.

Così come non esiste morte senza dolore, non esiste dolore senza vita. E voi uomini santi, ossioi, ulema, mullah, rabbini e preti imparate a riconoscere l’odore amaro del latte di dio prima di incontrare Shemhazai il Traditore. L’Antico degli Antichi avrà sempre un trattamento di riguardo in serbo per voi. E alla fine ogni atma sarà dispersa. Per sempre dispersa nelle viscere dell’Intento. Nessuno di voi tornerà più senza una spina nel palmo della mano sinistra.

È stato scritto.
Voi mangiate carne col sangue, alzate gli occhi verso i vostri idoli e versate sangue in loro nome, e voi vorreste ereditare il paese?
כה לָכֵן אֱמֹר אֲלֵהֶם כֹּה-אָמַר אֲדֹנָי יְהוִה, עַל- הַדָּם תֹּאכֵלוּ וְעֵינֵכֶם תִּשְׂאוּ אֶל-גִּלּוּלֵיכֶם--וְדָם תִּשְׁפֹּכוּ; וְהָאָרֶץ, תִּירָשׁוּ.
Vi reggete in piedi sulle vostre spade, commettete abominazioni, ciascuno contamina la moglie del prossimo, e voi vorreste ereditare il paese?
כו עֲמַדְתֶּם עַל-חַרְבְּכֶם עֲשִׂיתֶן תּוֹעֵבָה, וְאִישׁ אֶת- אֵשֶׁת רֵעֵהוּ טִמֵּאתֶם; וְהָאָרֶץ, תִּירָשׁוּ.
Come è vero che io vivo, quelli di voi che sono tra le rovine cadranno di spada e quelli che sono in aperta campagna li darò in pasto alle bestie e quelli che sono nascosti nelle fortezze e nelle grotte moriranno di peste.
נְתַתִּיו לְאָכְלוֹ; וַאֲשֶׁר בַּמְּצָדוֹת וּבַמְּעָרוֹת, בַּדֶּבֶר יָמוּתוּ.
כז כֹּה-תֹאמַר אֲלֵהֶם כֹּה-אָמַר אֲדֹנָי יְהוִה, חַי- אָנִי, אִם-לֹא אֲשֶׁר בֶּחֳרָבוֹת בַּחֶרֶב יִפֹּלוּ, וַאֲשֶׁר עַל-פְּנֵי הַשָּׂדֶה לַחַיָּה
Renderò il paese una tale desolazione che vi lascerà storditi e cesserà l’arroganza della vostra forza e le montagne d’Israele saranno desolate, così che non vi passi più nessuno.
כח וְנָתַתִּי אֶת-הָאָרֶץ שְׁמָמָה וּמְשַׁמָּה, וְנִשְׁבַּת גְּאוֹן עֻזָּהּ; וְשָׁמְמוּ הָרֵי יִשְׂרָאֵל, מֵאֵין עוֹבֵר.

La secolare desolazione che vi ingrassa il ventre, magistrati e arconti, Mufti e Shaykh della Terra di Dentro, è niente in paragone al deserto che vi ha mangiato il cuore. Potrò mai chiedere ai miei Elohim di versare una sola lacrima mentre le vostre bocche riverse affogheranno nel vostro stesso sangue?

È stato scritto.
Quel giorno verranno fuori i vostri progetti segreti ed escogiterete i vostri piani malvagi.
י כֹּה אָמַר, אֲדֹנָי יְהוִה: וְהָיָה בַּיּוֹם הַהוּא, יַעֲלוּ דְבָרִים עַל-לְבָבֶךָ, וְחָשַׁבְתָּ, מַחֲשֶׁבֶת רָעָה.
E marcerete contro un paese di villaggi indifesi; volgerete le vostre armi contro un popolo tranquillo che abita al sicuro, che abita in un posto senza mura, senza sbarramenti e senza cancelli.
יא וְאָמַרְתָּ, אֶעֱלֶה עַל-אֶרֶץ פְּרָזוֹת--אָבוֹא הַשֹּׁקְטִים, יֹשְׁבֵי לָבֶטַח; כֻּלָּם, יֹשְׁבִים בְּאֵין חוֹמָה, וּבְרִיחַ וּדְלָתַיִם, אֵין לָהֶם.
Deprederete, saccheggerete, calerete la vostra mano armata sulle rovine ora ripopolate, contro un popolo riunito fuori delle nazioni, dedito al bestiame e al commercio, che dimora al centro della terra.
הָאָרֶץ.
יב לִשְׁלֹל שָׁלָל, וְלָבֹז בַּז--לְהָשִׁיב יָדְךָ עַל-חֳרָבוֹת נוֹשָׁבוֹת, וְאֶל-עַם מְאֻסָּף מִגּוֹיִם, עֹשֶׂה מִקְנֶה וְקִנְיָן, יֹשְׁבֵי עַל-טַבּוּר

Fare strage di bambini e vecchi inermi è la vostra stupida ragione di vita, soldati degli eserciti dell’Orbe di Dentro. Giocare con i vostri membri morti non vi darà mai il piacere dell’amore, carcerieri e torturatori delle nazioni della terra. Perché è stato scritto: chiunque uccida un uomo uccide tutti gli uomini. La prima volta che incontrerete lo specchio di dio esso vi inghiottirà, lasciando di ognuno di voi solo uno sbuffo di cenere infetta.

È stato scritto.
Poiché c’è stato in voi un odio eterno e avete gettato i figli di Israele in preda alla spada al tempo della catastrofe, quando la vostra colpa giunse alla fine.
ה יַעַן, הֱיוֹת לְךָ אֵיבַת עוֹלָם, וַתַּגֵּר אֶת-בְּנֵי-יִשְׂרָאֵל, עַל-יְדֵי-חָרֶב--בְּעֵת אֵידָם, בְּעֵת עֲו‍ֹן קֵץ.
Per questo, come è vero che io vivo, oracolo di Dio, vi preparo per il sangue e il sangue vi perseguiterà. Avete odiato il vostro stesso sangue e il sangue vi perseguiterà.
ו לָכֵן חַי-אָנִי, נְאֻם אֲדֹנָי יְהוִה, כִּי-לְדָם אֶעֶשְׂךָ, וְדָם יִרְדְּפֶךָ; אִם-לֹא דָם שָׂנֵאתָ, וְדָם יִרְדְּפֶךָ.

Umani, figli miei, così è stato scritto. Dall’inverno della vostra vita ogni paura dovrebbe essere bandita, una croce sul cuore imbastita l’unica arma nell’inverno della vostra vita.
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giovedì 6 maggio 2010

Manodopera

Ho un colloquio di lavoro con me stesso, le mani in bella vista e le unghie pulite, il biglietto da visita giusto per ogni occasione.
"Dicono ci voglia del fegato per fare questa mansione, ma io ho lo stomaco forte. No, gli orari vanno benissimo."
Ho una giacca oscena, la barba sfatta, due occhiaie da maniaco. Giocherello con il tagliacarte, assorto nei miei pensieri.
"Mah... mi sa che anche questa volta torno a casa a mani vuote. Chissà per quanto ancora dovrò restare tagliato fuori... fare di continuo manifestazioni non serve a niente, per quel manipolo di manigoldi al potere siamo solo carne da macello."
Non resisto, le mani mi si irrigidiscono in pugni vuoti d'ogni pacato autocontrollo e piango. Ho voglia di vomitare. Mi infilo due dita in gola ma non esce niente. Provo con tutta la mano ma non c'è verso, e con due mani non ci passo.
"Provo a consolarmi con una sega, una sega a quattro mani."
Non mi tira, non mi trovo attraente, sono un povero disoccupato manesco buono a niente, neanche a farmi vomitare, neanche a farmi una sega.
"Non faccio una sega dalla mattina alla sera."

E invece mi piaccio: il posto da macellaio è mio, part-time ventricolare.
Sarò il mio macellaio di fiducia. E tu?
"Io? Finisco di mangiarmi il fegato e vengo a dare una mano."

(voce fuori campo) "Dacci un taglio, coglione."
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mercoledì 5 maggio 2010

Se proprio ti sei messo in testa di scrivere (non un altro decalogo)

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Prima della lettura: questo testo è il risultato di un cut-up da un articolo del Guardian del 20 febbraio 2010 (Ten Rules for Writing Fiction, prima parte e seconda parte). Secondo criteri arbitrari e soggettivi, sono state estrapolate e mescolate fra loro alcune delle "regole" suggerite, senza altra intenzione che non sia quella di comporre un testo-mosaico che possa essere utile, godibile, vagamente dada - un testo narrativo che parta da presupposti extra-narrativi. Gli autori che hanno partecipato all'articolo originale, e che qui compaiono in ordine sparso, sono: Margaret Atwood, Roddy Doyle, Helen Dunmore, Geoff Dyer, Anne Enright, Richard Ford, Jonathan Franzen, Esther Freud, Neil Gaiman, David Hare, Pd. James, Al Kennedy, Hilary Mantel, Michael Moorcock, Michael Morpurgo, Andrew Motion, Joyce Carol Oates, Will Self, Rose Tremain, Sarah Waters, Jeanette Winterson.
La traduzione è di Giovanna Capogrossi, cui va un ringraziamento particolare.
Sono stati effettuati interventi minimi per adeguare le "regole" selezionate alla particolarità di un testo a più mani.
Buona lettura e, soprattutto, buona scrittura.
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Leggi. Più che puoi. Nel modo più approfondito, più ampio, più nutriente, più irritante che puoi. Poi le cose belle si faranno ricordare, non avrai bisogno di prendere appunti. Leggi tanto e con discriminazione. Le cattive letture sono contagiose.

Non fermarti a immaginare di scrivere – scrivi! È solo scrivendo, e non sognando di farlo, che sviluppiamo un nostro stile. Fallo tutti i giorni. Abituati a tradurre in parole le tue osservazioni, e questo gradualmente ti verrà d’istinto. Questa è la regola più importante di tutte. Scrivi. Nessuna miseria autoinflitta, né stati alterati, né maglioni neri, né il risultare odioso in pubblico varranno quanto il fatto che sei uno scrittore. Gli scrittori scrivono.

Proteggi lo spazio e il tempo in cui scrivi. Tieni lontano tutti, anche le persone per te più importanti. La vita dello scrittore è essenzialmente un confino solitario – se non riesci ad accettarlo, non ti ci dovevi dedicare. Ricorda che ami scrivere. Non ne varrebbe la pena altrimenti. E se l’amore svanisce, fai ciò che devi per ritrovarlo. Non avrai un piano pensionistico. Gli altri possono esserti di qualche aiuto, ma essenzialmente sei solo. Non ti obbliga nessuno, l’hai scelto tu. Quindi non frignare. Molto probabilmente avrai bisogno di un dizionario dei sinonimi, di un libro di grammatica basilare, e di presa sul reale. Ciò significa: nella vita niente è gratis. Scrivere è un lavoro. E anche un azzardo.

Scordati il noioso vecchio detto “scrivi di ciò che conosci”. Piuttosto, scopri un’area sconosciuta e conoscibile dell’esperienza che amplierà la tua comprensione del mondo, e scrivi di quella. Il prerequisito è mantenere pieno il pozzo delle idee. Questo significa vivere una vita il più possibile piena e varia, in modo che le antenne siano sempre all’erta. Onora il miracolo nell’ordinario. Apri la mente a nuove esperienze, in particolare allo studio di altre persone. Niente di quello che accade a uno scrittore, che sia gioia o tragedia, va sprecato. Lascia che sia la tua opera a dire se è utile o meno. Prova a pensare alla fortuna degli altri come a un incoraggiamento per te.

Quello che conta è il tempo di gestazione. Non iniziare un libro quando senti di volerlo fare, ma aspetta ancora un po’. Porta sempre con te un taccuino. E intendo dire sempre. La memoria a breve termine trattiene nuove informazioni solo per tre minuti: a meno che non affidi un’idea alla pagina scritta, l’avrai persa per sempre. Decidi quale momento del giorno (o della notte) ti è congeniale per scrivere e organizza la tua vita in base a questo. Ricorda che la scrittura non ti ama. Non le interessa. Nonostante questo può essere estremamente generosa. Parlane bene, incoraggia gli altri, falla circolare.

Quando arriva un’idea, resta in silenzio a osservarla. Ricorda l’idea di Capacità Negativa di Keats, e il consiglio di Kipling “raccogli, aspetta e obbedisci”. Mentre accumuli dati, permetti a te stesso di porre il tuo sogno in essere. Abbi più di un’idea alla volta mentre lavori. Se si tratta di decidere se scrivere un libro o non fare niente, invariabilmente scegli la seconda opzione. È solo se hai un’idea per due libri che scegli l’uno invece che l’altro. Devi sempre avere l’impressione di scappare da qualcosa. A fine giornata, smetti di scrivere quando avresti ancora voglia di continuare.

Se ti blocchi, allontanati dalla scrivania. Fai una passeggiata, un bagno, vai a dormire, prepara una torta, ascolta musica, medita, fai ginnastica; qualsiasi cosa, ma non restare lì immobile a crucciarti sul problema. Ma non fare telefonate e non uscire; se lo fai le parole degli altri andranno a riempire il vuoto in cui dovrebbero stare le parole che non trovi. Apri loro un varco, crea uno spazio. Sii paziente. Impara poesie a memoria.

Sii gentile con te stesso. Riempi le pagine il più velocemente possibile: doppia spaziatura, o scrivi ogni due righe. Considera ogni nuova pagina come un piccolo trionfo. Fai esercizi per la schiena: il dolore distrae. Nella fase di pianificazione del libro, non pianificare il finale. Verrà da sé in seguito a ciò che lo precede.

Sii editor e critico di te stesso: comprensivo, ma spietato. Non essere mai soddisfatto della prima stesura. In realtà, non essere mai soddisfatto di niente di ciò che produci, finché non sei certo che sia, per quanto lo permettano le tue limitate possibilità, abbastanza buono. Taglia: solo evitando tutte le parole inessenziali, quelle essenziali hanno il loro giusto peso. Evita i punti deboli, ma fallo senza dire a te stesso che le cose che non puoi fare non vale la pena farle. Non mascherare l’insicurezza con il disprezzo. Fai passare un lasso di tempo adeguato tra la scrittura e la revisione. Ricordati: quando le persone ti dicono che c’è qualcosa di sbagliato, o che per loro non funziona, hanno quasi sempre ragione; quando ti dicono nei dettagli quello che non va e come aggiustarlo, hanno quasi sempre torto.

Una storia ha bisogno di ritmo. Leggila a voce alta. Se non emana un po’ di magia, c’è qualcosa che manca. Il ritmo è fondamentale. Scrivere bene non basta. Gli allievi dei corsi di scrittura sono in grado di produrre una singola pagina di prosa ben fatta: spesso però manca la capacità di accompagnare il lettore in un viaggio, con i mutamenti di terreno, di umore e velocità propri di un lungo viaggio. Anche in questo caso credo che aiuti guardare film. Nella maggior parte dei romanzi vi sono movimenti molto simili a quelli della macchina da presa: primi piani, movimenti indietro, avanti veloce, stop.

Scrivi in terza persona, a meno che non si presenti irresistibilmente una prima persona davvero singolare. Cerca di essere accurato nelle cose. Non fermarti a lungo in mezzo alla foresta. Se ti sei perso nella trama, o sei bloccato, ripercorri le tracce fino al punto in cui hai sbagliato strada. E prendi l’altra. E/o cambia la persona. Cambia il tempo verbale. Cambia la prima pagina. La descrizione è difficile. Ricorda che ogni descrizione è un’opinione sul mondo. Trova il tuo punto d’osservazione. Scrivi solo quando hai qualcosa da dire.

Bastone e carota: crea protagonisti che scappano (dal cattivo o da un’ossessione) e che inseguono (un’idea, un oggetto, una persona, un mistero). Chiudi diversi personaggi ed elementi a chiave in una stanza, e dì loro di cavarsela da soli. Ascolta ciò che hai scritto: il ritmo lento in un dialogo può significare che non capisci ancora abbastanza bene i personaggi da farli parlare con le loro voci reali. Se possibile, cerca di avere qualcosa da fare mentre i tuoi personaggi rivelano se stessi e la loro filosofia: aiuta a trattenere la tensione drammatica.

Tieni un dizionario dei sinonimi, ma dentro al ripostiglio in fondo al giardino, o nel frigorifero, in un qualche luogo lontano o difficile da raggiungere. Le parole che casualmente ti arrivano alla coscienza andranno bene, ovvero “cavallo”, “correva”, “disse”. Lo stile è l’arte di toglierti dalla strada, non di metterti in mezzo.

Mantieni il cuore aperto, ma aspettati il peggio. Devi amare prima di poter essere implacabile. Ama quello che fai.
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