mercoledì 10 febbraio 2010

Romanzo infinito / Qana, 31 luglio 2006

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Questo scritto ha due prologhi, entrambi successivi alla storia.
Il primo è questo.
Il secondo ha poca importanza.
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Allah, dammi il coraggio di guardare in faccia l’orrore.

Ancora dormivo quando questa mattina Nayef mi ha chiamato dalla Mezzaluna Rossa di Tiro. La sua voce era strana, sembrava parlare con difficoltà. Nelle cantine dell’edificio crollato c’erano molti profughi dai villaggi vicini. Famiglie in cammino per Beirut. Qualcuno aveva detto loro che il posto era sicuro per la notte.

C’è un’aria di desolazione sotto il sole ruggente di Qana. Nelle strade la gente è poca e ci guarda con la febbre negli occhi. Non ci sono madri intorno a noi, solo i primi morti sulle carriole. Qualche bambino con la faccia bianca e le narici piene di sangue. Su una stuoia in cortile, il corpo impolverato e scomposto di una donna coperta a metà da un lenzuolo a fiori azzurri. La palazzina è proprio sotto il minareto della moschea. I tre piani si sono sbriciolati sotto il peso del tetto di cemento armato. Un missile teleguidato, dicono. Di fabbricazione americana, a giudicare dai frammenti. Forse un MK–84. Novecento libbre di esplosivo intelligente.

Nayef mi viene incontro con un fagotto bianco tra le braccia. Ha gli occhi arrossati e l’aria di chi sta salendo sul patibolo. Mi dice che forse non c’è più nessuno vivo sotto le macerie. Mi dice di mettere la mascherina e di segnare lo scavo. Come un archeologo arrivato troppo presto nella necropoli.

Dopo pochi minuti la camicia mi si attacca alla schiena e preferisco continuare a scavare a torso nudo. Poi, subito sotto il frontone del tetto, in cima ad un mucchio di terra e cavi divelti, quello che sembra il tubo bianco di una stufa. Ci sono proprio sopra e una mano fredda mi strizza lo stomaco. Non è un tubo, è un braccio sporco di gesso.

Di colpo, dall’altra parte delle macerie, una voce maschile getta un urlo come un macigno che cade. Sobbalzo e per poco non cado all’indietro nella scarpata di pietre e detriti. Poi il grido si appuntisce in un sibilo acuto senza fine che non può essere sentito senza impazzire. E si perde altissimo in questo mare cobalto scuro che Qana ha per cielo. Alla fine muore in un lamento strozzato, un gorgoglio in gola.

Le mie mani scavano con furia ma incontrano solo altra terra e altre pietre fino a quando non la vedo in faccia, sotto le mie ginocchia affondate nel tumulo. Una bambina distesa sul fianco, nel fondo, con un braccio spezzato e l’altro sul viso gonfio di polvere. Tre anni, forse quattro. La bocca è piena dei calcinacci che l’hanno soffocata. Il pigiama sporco di terra strappato sulla piccola spalla vuota. Mi guarda fisso con un occhio spalancato del verde più smeraldo che c’è al mondo. L’altro è perduto. L’orbita è tumefatta e piena di sangue raggrumato. Mentre la sollevo piano sotto le ascelle, penso a sua madre e suo padre. E desidero che siano morti anche loro. Lo desidero con tutto me stesso, dal profondo delle viscere. Che la morte li salvi da questa vista. La sollevo in alto sopra le mie ginocchia e per un momento siamo entrambi senza peso e senza vita. Quando l’attiro verso di me, il suo piccolo corpo di pezza mi abbraccia come ha fatto con la madre la sera prima di morire.

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venerdì 5 febbraio 2010

La morte di Bunny Munro (Nick Cave, Feltrinelli, 2009 / traduzione di Silvia Rota Sperti)

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Prima della lettura: lo scritto che segue è scaricabile e stampabile da questo pdf. Nessuno avrà da ridire se per salvare le vostre diottrie rischierete di contribuire alla deforestazione del globo. Tuttavia, usare carta di riciclo è un gesto di intelligenza e di civiltà.
Buona lettura.

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di Giampiero Cordisco

Dio solo sa quanto adoro quest’uomo. Al di là dei baffi, di Grinderman e di Nocturama (probably il più brutto bel disco nella storia del rock – probably). Ma non è con amore devozionale che mi sono avvicinato alla sua seconda fatica letteraria, né con timor di dio e/o attesa trepidante: non ho fatto la fila per comprare il libro nel giorno della sua uscita, non l’ho comprato poi. Ho avuto l’occasione buona per leggerlo soltanto una settimana fa, e non appena me lo sono ritrovato sulla scrivania (cioè sulla scheda audio che poggia sul mixer che poggia sulla scrivania) mi accorgevo di guardarlo, e poi di aprirlo e girarne le pagine, con una mistura intestinale di trepidazione e boria artificiosa e difensiva. Questo perché da qualche parte nei viadotti dissestati della mia psiche si nasconde la paura tremenda che quest’uomo possa ferirmi: con una delusione, con un sottoprodotto, con un passo falso.

(È chiaro che Grinderman, i baffi, il blues della non-fica, il riemergere di un’immagine di Cave circense del rock e cocchiere della biga artefatta del music-business – laddove invece dominavano prima le tinte scure e primordiali del Delta e poi il richiamo a una poetica saudosista e poi ancora la rivelazione di una spiritualità intima e personalissima, laddove, per farla breve, potevamo vedere dei richiami oltre la musica, oltre il rock’n’roll – è chiaro che dopo un po’ questo cambiare pelle e sapersi reinventare nell’immaginario collettivo facendo ogni volta l’esatto contrario di ciò che ti saresti legittimamente aspettato da uno che ha fatto The Boatman’s Call (storia vecchia, lo so) rompe un po’ il cazzo. Ed è chiaro che la parentesi Grinderman mi ha regalato un trauma midollare che non posso che bilanciare schiumando circospezione. Ma la mia stroncatura di Grinderman l’ho già fatta a tempo debito su Debaser, ed è ormai acqua evaporata in polvere spazzata via dai venti degli anni, e poi questo è solo un paragrafo introduttivo per dire che avevo il sacrosanto diritto ad aspettarmi una cagata, e la recensione de La morte di Bunny Munro inizia qua sotto.)

Ma quale delusione e/o sottoprodotto e/o passo falso: un pugno nello stomaco, altro che. Un’entrata a gamba tesa, una sassata in piena fronte. E il bello è che lo capisci pian piano, finché non ti senti completamente stretto alle corde. C’è da dire che all’inizio ci provi, a difenderti: muovi obiezioni anche legittime (“Qui sembra Palahniuk” – “Che bisogno ha di rifarsi a Bukowski?” – “Perché tanto pop?”), storci il naso, ti sembra di leggere proprio quello che non vorresti mai leggere a firma Nick Cave, ti sembra di leggere l’atteso romanzo del tale blogger. E invece Nick Cave ti fotte, ragazzino/a. Nick Cave, per mano di Bunny Munro.

Bunny Munro è un venditore porta a porta di prodotti cosmetici che ritorna a casa dalla sua ultima missione e trova la moglie impiccata. Da qui si mette sulla strada, insieme al figlio Bunny Junior e a una lista di clienti (donne) da spennare (e di cui approfittare sessualmente). Questa fuga dissimulata e fallita termina alla fine della lista. Bunny muore in maniera rocambolesca, fulminea (è il caso di dirlo), alla fine di un viaggio di perdizione che altro non è stato se non il precipitare nelle spire della propria follia, una follia disumanizzata, totale, strisciante e onnicomprensiva, cieca e accecante. Eppure normalissima.

Davanti al corpo di Libby ancora penzolante, Bunny vede sfumare l’idea di un pomeriggio di sesso (ma ripeto: “sesso” non è la parola adatta) ma poi si concentra sulle tette – sulle tette della moglie fresca di suicidio. Questo potrebbe anche bastare come biglietto da visita – soprattutto dopo che l’abbiamo visto circuire due ragazze e cercare riparo in un parcheggio dove sfogare le sue ulteriori brame masturbatorie.

Pensate a un maniaco sessuale, sociopatico, alcolizzato, pervertito, profittatore, narcisista, sboccato, dategli delle mutande tigrate, pensatelo in grado di vendere “una bicicletta a un barracuda” – e non avrete Bunny Munro. Per cogliere in pieno Bunny Munro dovete anche far regredire a meno di zero la sua umanità. Dovete distruggere qualsiasi dimensione morale, far precipitare i valori spirituali che distinguono l’uomo dalla bestia, disintegrare l’empatia sociale. E dimenticavo: aggiungete una colonna sonora ultrapop, e pensate che non siete gli unici a volervi fare Kylie Minogue e/o Avril Lavigne. Ancora: metteteci un padre totalmente deluso e una suocera che odia il tipo in questione. Ah: e poi mettetelo su una Punto gialla, il tipo in questione. Ecco: il tipo in questione è Bunny Munro, ovvero l’uomo degenerato a pura istintualità biologica.

La perversione di Bunny Munro non è una perversione sessuale, o meglio: è una simulazione. In realtà Bunny nutre una depravazione di tipo autoptico: ha una passione sfrenata, midollare, a tratti patetica ma non per questo meno agghiacciante, per la vagina, per le tette, per i culi, per le cosce. Non si tratta di sesso, né di erotismo (che già di per sé richiamerebbe a dimensioni ulteriori): stiamo parlando di un uomo ossessionato da parti anatomiche, da pezzi di carne, da pezzi di corpi femminili. La perversione di Bunny si colloca fra l’obitorio e il sexy shop – questo signore sparge le proprie ossessioni nel mondo come se il mondo fosse abitato da corpi femminili senza vita o da bambole gonfiabili. La sua maniacalità non ha assolutamente nulla di umano. La forbice delle sue pulsioni varia dall’anatomia muscolare alla fisiologia degli apparati genitali.

Gli amici e colleghi di Bunny sono della sua stessa stoffa, solo stanno ai margini, e ti fanno capire che questa è follia pura e oblio e disumanizzazione a 360 gradi, che il filo dell’orizzonte è moralmente rovinato su se stesso, che l’umanità è persa. Questa sensazione di deserto ti accompagna per l’intero romanzo. Apparentemente non esistono vie d’uscita dal nulla in cui è ridotto l’umanismo contemporaneo, sbriciolato dall’immagine, fatto a pezzi dalla pubblicità e dai tormentoni radiofonici. Qualcosa è andato storto nel tirare la corda dei vari corpicini prestati alle campagne pubblicitarie, ed eccoci qui. Basta poco.

Solo la figura di Bunny Junior – solitario, semiautistico, nostalgico, sofferente – salva questo immaginario desolante e parassitico. Bunny Junior si rifugia fra i pianeti che tiene in sospensione sopra il letto e l’enciclopedia che gli ha regalato la madre, e così facendo apre linee prospettiche su altre dimensioni, salvando in parte la chirurgica tragedia umana di cui La morte di Bunny Munro è imbevuto. La sua è una tensione alla possibilità di un altrove: il simbolismo del suo piccolo planetario e dell’enciclopedia è evidente (benché “simbolismo” è parola terribilmente fuori luogo, incompleta e inadatta a descrivere questo processo che è in parte allegorico e in parte straniato/straniante – è un “simbolismo” che lavora per fotogrammi sinaptici, insomma). Lo stesso si può dire per le infezioni oculari di cui soffre: è forse un richiamo alla necessità del pianto, al potere catartico della commozione, unico antidoto per tornare a “sentire”, per riagganciarsi a una tensione spirituale. L’enciclopedia e il planetario sono per il piccolo Bunny oggetti di transizione post-traumatica, sono le vie di attuazione del superamento che si fonda sull’amore per la mamma scomparsa, e sulla sua ineluttabile e disperata mancanza. Bunny Junior inizia a vedere la madre ovunque, inizia a parlarci, a sentirne il caldo profumo. E sa che suo padre, nel frattempo, ha imboccato una strada senza ritorno.

Che poi “impazzire” è termine troppo vago. Bunny Munro naviga a vista a caccia di clientela da spennare cui rifilare confezioni di creme da notte e tubetti di esfolianti, e ignora completamente le domande ansiose del figlio, tipo cosa diavolo stanno facendo e dove porterà questo giro senza senso, dal momento che la lista è quasi finita e la prospettiva è inesistente a dir poco (e Bunny Junior sa che tutto questo avrà breve durata e porterà allo sfacelo più completo, sa che finirà tutto veramente male, tant’è che si mette a consultare sull’onnipresente enciclopedia la voce “esperienza di premorte”). Poi beve come un SUV, ed è chiaro che ha delle allucinazioni sensoriali cui non riesce a dar corpo. E le prende, perdio, le prende di santa ragione prima da una femminista patita di Frida Kahlo e di Tae Kwon Do, evidentemente contrariata dal suo atteggiamento testosteronico, e poi dall’energumeno Mushroom Dave, che Bunny ha avuto la sfortuna di incontrare dopo aver praticamente violentato (“le entra dentro come un dannato battipalo”, scrive questa penna meravigliosa) la sua (dell’energumeno) compagna tossicomane in piena botta. Ma questi sono dettagli della trama: il fatto è che all’appuntamento con la morte Bunny Munro ci arriva ridotto a uno straccio, nel fisico un tempo aitante, nei vestiti sudici, nelle gallerie della mente ormai intasate e inagibili.

Rimarrà solo Bunny Junior, voce della coscienza residua, contrappeso ideale, umano e morale del nulla larvale cui è ridotto il padre. E Bunny Junior dovrà farcela da solo. Il piccolo perde in un attimo i punti cardinali: il padre (è comunque un riferimento forte, rappresenta per lui una figura esemplare di difficile, e dubbia, interpretazione) e l’enciclopedia, bruciata nell’incidente finale – e questo sì che è un simbolismo nullificante. Rimane solo, e il gigantesco non detto che accompagna il romanzo una volta chiuso il libro è tutto suo.

La morte di Bunny Munro
è un romanzo ibrido, posto all’incrocio di diverse esperienze letterarie e narratologiche in senso lato. Personaggio moralmente esausto e “fottuto”, invaso dal niente, con un bagaglio di autocoscienza apparentemente impossibile da evitare ma puntualmente accantonato nella più vuota insensibilità percettiva; figlioletto al seguito che definisce il miraggio metanarrativo di un romanzo (di [inizio] formazione) nel romanzo – una prospettiva potenziale non attuata – e che con il padre ha un rapporto sincero e diffidente al tempo stesso, trasportato e scettico, reale come in una fiction TV e falso come nelle circostanze di tante storie autentiche; colore locale e sviluppo della struttura che mischia i condomini di Ballard con il primo hardboiled che vi viene in mente, romanzo on the road e psicodramma a basso voltaggio, comicità imbarazzante modello Benny Hill e inquietante saturazione periferica allegorica à la David Lynch, pop in alta definizione e bassissima fedeltà sgranata e fuori fuoco. Questo è un romanzo fortemente visivo: è la trasposizione in parole di immagini nitidissime. Un crossover che si attua nello stile e nel mescolamento dei linguaggi narrativi, laddove il registro rimane ben definito, compiuto, praticamente inoppugnabile.

E poi pensate al Killer Cornuto che avanza nella sua sotto-trama, diretto al centro focale dove brucia la parabola vertiginosa di Bunny, pensate al simbolo morale che detto Killer Cornuto incarna, figuratevi questo Occidente in metastasi spirituale, rivedete Bunny Munro che muore offrendo il petto al cielo, rileggete la bandella che dice proprio “romanzo morale” e sì, siamo d’accordo, ma c’è anche molto, molto altro. L’Occidente continua a morire di una tragedia immane in cui ognuno è palcoscenico e platea.

Leggetelo, fa bene.
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