mercoledì 31 marzo 2010

La pratica dell'harakiri e il Maalox in rapporto al karma (e altre amenità)

di Giampiero Cordisco

Raffaele Fitto, ad esempio: lo vedi in uno qualsiasi dei salotti TV e non gli daresti due lire, con quel taglio insopportabile da sedicenne arrivato, gli occhi stretti come uno che sta sempre in procinto di scoreggiare, la pedissequa emulazione del Caro Leader, i tentativi mal riusciti di mascherare l’accento, e compagnia bella. Immagini lo stipendio da onorevole, immagini il cursus honorum passato che lo ha portato fino alla poltroncina bianca nello studio di Vespa, immagini tutto quello che riesci a immaginare facendo andare la già pigra fantasia al minimo dei giri. Però questo signorino arrivato fresco fresco nelle stanze del potere (sperando che la sua decenza lo abbia comunque distolto dal farsi un riposino sul lettone di Putin quando il Piccolo Grande Capo era di buon umore) ha dato una prova, signori, una prova di responsabilità politica: dopo la vittoria di Vendola nelle regionali in Puglia, dopo essersi preso una buona randellata di consensi contrari, dopo aver guidato e appoggiato una lista cui Sua Santità Mentale era contrario in partenza, ha deciso di rassegnare le dimissioni dai propri incarichi istituzionali, ha finalmente rimesso questi incarichi nelle mani grassocce dell’Utilizzatore Finale. Il che non vuol dire nulla, per carità. Già Bertolaso aveva rimesso gli incarichi, ma di fatto è ancora lì con la felpa e lo scudetto e recentemente è apparso in TV dopo la messa del Papa per la Protezione Civile a dire che “la Protezione Civile è questa”, quella seria e dedita allo Stato, inaugurando le nuove frontiere della riabilitazione mediatica italiana, l’autoriabilitazione. Ma comunque, l’omino Raffaele Fitto il suo gesto l’ha fatto, qualcuno dovrà pur dargliene atto, almeno a un livello teorico in cui si scommette su un risultato, il risultato non si consegue, ne consegue dunque che te ne vai. Punto. È un esempio, poi stiamo sempre parlando di Raffaele Fitto.

Parliamo quindi, più in generale, di questo universo semantico che chiamiamo ancora “sinistra”. Anzi no: parliamo solo di Bersani. Quello che parlava (al vento) del vento, che era cambiato, questo vento, che ora tirava da un’altra parte, che Berlusconi doveva proprio preoccuparsi per le raffiche in direzione contraria con cui spirava minaccioso questo ventaccio del Nord, che sarebbero stati affari suoi perché adesso la gente sapeva che il PD (completa la frase a tuo piacimento). Un sacco di previsioni, e cazzate, talmente sganciate dalla realtà che viene da pensare che questo vento fosse tutto concentrato in una tromba d’aria epocale dentro il cranio del segretario PD. Immagino ci sia gente che si aspetta un’assunzione di responsabilità, e fanno bene. Da New York la figlia di Veltroni ha commentato su facebook che aspetta che qualcuno si dimetta, prima che gli venga la gastrite. Povera stella, la figlia di Veltroni nel suo democratico loft affacciato su Central Park deve essere proprio incazzata nera, perdio, qualcuno si dimetta prima che a questa gli si buchi lo stomaco. (A proposito, cocca, ho da poco scoperto il Maalox, ed è una bomba, abbi fede.) Ma Bersani, invece, ha commentato qualcosa come: “Io non parlerei di sconfitta”. Leggevo l’ultimora di Repubblica e credevo di essere su Spinoza. Lui non parlerebbe di sconfitta. Ma è Spinoza? No, è Repubblica. Ripubblica? Ma no: Repubblica, quella vera.

Gli ho mandato una mail per spiegargli che il suo schieramento è quello senza la L, poi gli ho accennato che assumersi delle responsabilità, ammettere le proprie colpe, fare un harakiri morale armato della sincerità più affilata, e di un pizzico di amor proprio, e del rispetto dell’elettorato, e dell’omaggio ormai tardivo verso una storia che è definitivamente sepolta, in queste desolate lande politiche, assumersi delle responsabilità, invece di tirare in ballo un inutile punto di vista relativo ad altrettanto inutili parametri e termini di paragoni elettorali, assumersi delle cazzo di responsabilità, insomma, sarebbe un gesto gradito. E poi fa bene, quando ammetti di aver sbagliato, senti il karma che ti si raddrizza, ti senti in pace, ti svuoti di qualcosa che proprio devi buttare via altrimenti ti inizia a marcire dentro, e in qualche modo puoi ricominciare. Io certe volte sbaglio di proposito così da scendere in strada e fermare il primo sconosciuto che mi capita a tiro e abbracciarlo, sussurrandogli nell’orecchio “è tutta colpa mia, solo colpa mia, ho mancato gli obiettivi, sono stato un cazzone, sono una delusione senza fine”. Eccetera. Poi mi passa. Mi piace talmente tanto il processo liberatorio di sfogare le mie colpe che faccio in modo di trovarmi sempre in una situazione che mi renda necessario questo personale harakiri morale, sbagliando di proposito, imponendomi di fare cazzate, non riconoscendo le specificità delle situazioni, mutilando la mia visione d’insieme che comprende oltre al circo di immagini che mi si agita in testa anche il baluardo roccioso e inamovibile della realtà, mutilandola in senso realifugo.
Proprio come il PD. Il cui segretario non mi ha ancora risposto. Mi sa che il vento tirava bello forte.
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venerdì 26 marzo 2010

Ancora a proposito del mio ombelico

di Giampiero Cordisco

Bene. Oltre al titolo non c’è altro, o meglio: ti proponi di scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, perché ci sono frasi che ti sembrano buone e giuste e appropriate e stanno lì, nella tua testa, e non sarà questa la sera in cui le sprecherai. Ma poi accendi il computer, la ciabatta, il monitor esterno, inserisci la password, si accende la ventola di raffreddamento, poi il monitor esterno chissà perché ritorna al nero, quindi premi Fn + F5 una, due, tre volte finché non premi Fn + F5 declamando al contempo una sequenza primordiale di bestemmie – e ci sei. Ti siedi, lanci word, pagina bianca. White out. È tutto svanito – quella nebulosa di frasi monche ma dotate di un loro perché, quegli agglomerati di parole, quei pensieri spezzettati, quei segmenti lessicali. Svaniti. Puff. Vaffanculo.

Ieri leggevo questa frase che suona più o meno così: “Non immaginarti a scrivere: scrivi e basta”. Era in mezzo alle cose che ho dato da tradurre a Giovanna. Ecco: Giovanna – chissà se ha idea di quanto tempo potrà passare fino al passo successivo. Chissà se ha la minima idea di quanto io sia bravo a far stemperare le cose, a renderle fiacche – proprio come me – fino al punto in cui si assottigliano e diventano inservibili. Solitamente lascio le cose a marcire per poi dire che non era mica questa grandissima idea. Il bello è che stavolta non andrà così. Presto sarà allestito sul blog tutto l’ambaradan dal titolo “Se davvero ti sei messo in testa di scrivere (non un altro decalogo)”.

Oggi mi aggancia mia cugina – la cugina di mia madre – dall’Australia. In chat. Mi chiede se sono “journalist or writer”. Ho passato più o meno cinque minuti a pensare a come abbatterla in tre parole, condensando in soggetto + verbo + oggetto tutto il mio autorisentimento per come perdo il mio tempo, sprecando la mia vita, che è unica al pari della vita di tutti (compresi Pippo Franco, Italo Bocchino, i Fichidindia, Policarpo Vasquez), ed è personalmente quello che più riesco ad avvicinare al concetto di “sacro”, scalando il tempo che ho a disposizione prima di dissolvermi in chissà quale aldilà, e insomma passo le mie giornate così, altro che giornalista o scrittore, che se solo avessi la minima disciplina (parola orrenda finché volete, ma è l’unica vera chiave di volta di tutta la faccenda) e non fossi così trasparente e vuoto e così schifosamente pigro di testa e abitudinario e inadeguato e anaffettivo e – non riuscirò mai a chiudere questa frase. Durante queste riflessioni, mentre mi si impone alla bocca dello stomaco un’acidità gastrica ribollente di negatività, mia cugina ha la saggia idea di andarsene offline. Bene così.

Il Pacific Trash Vortex. Mi interessa, non so perché. L’ho scoperto tramite Rufus, che a sua volta l’aveva preso da Federico, e via dicendo. Teoria dell’informazione. Il Pacific Trash Vortex pare che sia un’area di dimensioni gigantesche (le stime più spericolate parlano di tre volte la penisola iberica), nel Pacifico Settentrionale, in cui si accumula tutta la monnezza dell’oceano (cioè la monnezza con cui l’Uomo si presenta all’Oceano), e questo grazie a una corrente sottomarina a vortice. Per la maggior parte si tratta di plastica, che se ne sta lì a marcire nel nulla, e pian piano regredisce alle scomposizioni primarie della materia inorganica (polimeri e macromolecole) che vanno a occupare lo spazio compreso fra il pelo dell’acqua e i dieci-venti metri sottostanti. Ho pensato a quanta poesia possa esserci anche in un processo del genere, ho pensato al ciclo vitale che attraversano gli oggetti inanimati, corrosi dall’oceano, ammassati, spellati dal sole, scomposti, degradati sommariamente nelle loro particelle elementari, che però non sono elementari e questi oggetti senza vita che se ne stanno lì a non fare un cazzo non avranno nemmeno il piacere di ritornare a se stessi in forma unicellulare, no, diverranno dei polimeri. Polimeri, macromolecole, reticolati chimici. C’è poesia in tutto, e questa è poesia per ingegneri. Mi andava di scriverlo, tutto qui.

Anzi no: non è tutto. Su questa cosa della degradazione inorganica successiva ad accumulo e inquinamento massivo ho deciso di farci un breve concept audio (un mini CD di tre pezzi) che è già a un buon punto di lavorazione. Quindi se vorrete tenervi informati sull’argomento, restate sintonizzati.
Sul mio ombelico.
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venerdì 19 marzo 2010

Romanzo infinito / terza sequenza

Orbe di Dentro

L’insonnia dell’assedio

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Nelle stanze basse si dorme male:
è la vigilia della ghigliottina
Zo d'Axa
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Questa notte non finirà mai. È un chiodo piantato nella fibra del sonno e questo letto sembra attaccato al soffitto e questa stanza pulsa come un ventre di melassa.

Lo sento parlare da solo, adesso. Deve essere di là nello studio, a lavorare. Ieri blaterava qualcosa a proposito di Stendhal e di un’opera da riscrivere. Da quando Lara se n’è andata, sembra uscito completamente fuori di testa. Lo trovo quasi ogni sera seduto sul letto di lei a lucidare con gli occhi la carta da parati e lo sento parlare con lei come se fosse ancora qui. Non è tanto Lara che gli manca, quanto il suo ruolo di padre che gli riempiva le giornate e lo stancava quel tanto che gli permetteva di dormire di notte. Lara è stata la sua medicina per non pensare. Sto con lui da vent’anni e di lui conosco quasi solo la sua fatica di vivere. Il grande scrittore è un coltivatore di ossessioni che si rivolta nella mota della sua accidia in attesa del macellatore. Il pianto greco di un passato che lo ha portato a fare di tutto, tranne che a scegliere di essere se stesso.

E io non sono nemmeno una di quelle donne che può dire “prima non era così” perché è sempre stato così, dai primi giorni che siamo entrati in questa casa e lui l’ha riempita di vischio per appiccicare le mie membra alle sue. Certo, di sogni, di progetti comuni ce ne sono stati all’inizio, ma sono durati il tempo di una fuga. Lui che scappava ragazzino dalla sua famiglia di marionette e io che fuggivo dai miei santi lavoratori. Da una cella all’altra, senza nemmeno l’ora d’aria.

Pure i primi anni ero convinta di riuscire trovare una chiave, la chiave per aprire il suo cuore, per guardare dentro di lui. Ero certa che dentro di lui ci fosse da qualche parte uno strumento per sbloccarlo e attivargli dentro l’interruttore della vita. Magari per realizzare quel talento che mi aveva conquistato i primi tempi, per fare in modo che lo spendesse veramente.

Forse mi sarebbe piaciuto vivere di luce riflessa, essere la donna del grande scrittore. Diventare una di quelle eroine oscure della letteratura e dell’arte, di quelle che si meritano le recensioni e le indagini postume di celebrazione. Di quelle che “dietro ad ogni grande uomo c’è sempre l’ombra di una grande donna”. Di quelle che avrebbero convinto tutti che “senza di me lui non sarebbe stato nessuno”. Ma lui è stato nessuno anche con me e nonostante me. Lui è rimasto nessuno, un bruscolo nell’occhio del mondo. Una scheggia sotto l’unghia della vita.

E cosa ho fatto io per liberarmene? Niente. Ho solo preteso e gli ho imposto di avere Lara e nient’altro – lui che non voleva figli, lui che aveva paura di un figlio. Ma adesso Lara vive a New York e io sono tornata a dibattermi in questa trappola per topi, con lui che non ha nemmeno più i miei occhi per vedere. Insieme a lui che si è scoperto definitivamente cieco per non vedersi.

Non ho fatto nient’altro in questi venti anni, se non lavorare e amare Lara e rincorrere lui nelle sue fantasie e lasciargli tutto il piacere di stare con lei – una figlia sua, non più mia. Nient’altro che cercare di aprire alla vita gli occhi di Lara, dopo che avevo inutilmente tentato per anni di aprire quelli di lui. E, mio Dio, se ricordo quelle interminabili giornate passate ad aspettarlo! Aspettare che desse un qualsiasi segno di risveglio – un segno di vita – e che portasse me e Lara fuori da questa casa, da qualche altra parte. Da qualsiasi altra parte.

A ben guardare, isolati segni di risveglio del “satiro addormentato” ci sono stati. Ma alla fine si sono rivelati per quello che veramente erano, accessi di disperazione che magari un altro avrebbe tradotto in un bel suicidio silenzioso. Una dignitosa partenza in punta di piedi da questa terra matrigna.

Come quella volta a Bangkok, quando, al rientro nel nostro albergo, intravidi una bambina lacera che dormiva sotto un ponte e che a me sembrò morta. Una volta in camera, gli confessai quell’atroce dubbio e l’angoscia che non mi faceva respirare. Lui uscì da solo nella notte a cercarla e sparì per ore, facendomi dannare di paura e di colpa, ormai certa che l’avessero aggredito o rapito o che fosse scivolato nella palude dietro l’albergo. E invece, a mattino inoltrato, quando avevo già fatto chiamare la gendarmeria, lui rientrò con la febbre negli occhi e mi disse che era rimasto lì – per ore – poco distante dal luogo dove era accucciata quella bambina, a sorvegliarla. Fermo, senza muovere un dito, intorpidito e fulminato dall’orrido della situazione. Reso esanime dal senso di colpa di non riuscire a decidersi ad accoglierla tra le braccia e portarla via da quella discarica. Paralizzato dal dubbio, fino a quando, dopo le prime luci dell’alba, la bambina si era svegliata e si era allontanata tranquillamente per cominciare un’altra giornata di ordinaria disperazione.

Un uomo che si lasciava scorticare a sangue la pelle dalla realtà, senza opporre resistenza. Questo era lui. Un uomo che a poco a poco mi ha espulso definitivamente dal suo tempo, dal groviglio della sua esistenza. Mi ha consegnato mani e piedi legati all’aguzzino della mia vita, il lavoro. Mi ha guardato da lontano tirare avanti ogni giorno come un mulo. Non solo per sbarcare il lunario, ma per costruire una sicurezza anche per lui, quel minimo di futuro che lui ha sempre rifiutato. E magari dannarsi l’anima per trovargli amici fatti su misura – che lui potesse iniziare ai suoi grotteschi cenacoli, puntualmente falliti.

E poi, dopo la nascita di Lara, quando lui ha cominciato a guardare se stesso e il mondo non più dentro di me – come in uno specchio che gli rimandava un’immagine rassicurante – ma attraverso di me, come se io fossi trasparente, in modo da non vedermi più – solo allora ho provato a fuggire. Sono riuscita ad allentare le funi che mi legavano a questa casa, a questa contenzione, alla sua perenne insoddisfazione, al suo pensare di essere altro senza mai volerlo. Ho vissuto la mia breve stagione di libertà – quella che lui bollava come “inevitabile parentesi bovaristica” – e per un momento ho anche creduto di essere capace di andare via da qui, via da lui per sempre. Ma lui, forse per la prima e ultima volta nella sua vita, ha reagito duramente e, continuando a guardare attraverso di me come se non esistessi come quando ci si china a raccogliere distrattamente un oggetto caduto di tasca – ha allungato bruscamente un braccio e mi ha tirato di nuovo dentro per i capelli.

È stato comunque un periodo eroico quello, di accelerazioni all’impazzata e di tempie pulsanti. È stato il tempo della mia fuga rossa d’affanno. Avevo cominciato a guardare davanti a me, finalmente, e lui di rimando aveva preso a cancellare la parola, sostituendola con messaggi frettolosamente vergati su tutte le superfici. Ritagli di giornale, scontrini della spesa, lasciati in giro dappertutto.

“Spero che incontri l’uomo dei tuoi sogni e ti faccia morire lentamente”, mi scrisse una volta su un post-it attaccato al frigorifero che scoprii al mio rientro da un viaggio che avevo fatto da sola. E più sotto, su un ritaglio di giornale attaccato con lo scotch, “buon divertimento dall’inferno”. Lui non era in casa quella sera e nemmeno Lara, che all’epoca aveva sei anni. Improvvisamente rividi la bambina di Bangkok assopita sotto il ponte e vidi lui e Lara, entrambi all’angolo di una strada – laceri e smarriti – a chiedere l’elemosina ai passanti e mi sentii morire. Ma in serata rientrarono entrambi. Lara corse ad abbracciarmi le gambe e lui filò diritto nello studio senza guardarmi.

La notte successiva fu epocale, in tutti i sensi e con tutti i sensi. Da mesi non ci toccavamo e lui entrò nella stanza al buio, mentre ero già a letto semiaddormentata, mi chiuse la bocca con una mano e mi legò i polsi con una cinghia alla testiera del letto.

Una calda notte di fine agosto dell’ultimo anno del secondo millennio, lui entrò e colse il mio battito. Inabissò e disciolse il mio respiro. Sfibrò e innervò ogni suo nervo in ogni mio nervo. Annientò e risorse la mia carne. Violò e consacrò la mia anima. Sgominò e sgomentò il mio corpo legato e finalmente libero di volare. Corpo inerme e armato di paura. Corpo aperto sulla croce delle sue mani. In morte vivo. Nessuno sa di quanta morte può morire un corpo mortale.

Piuma nel vuoto di Dio, per tre volte annegai quella notte. E negai all’alba la luce del giorno, serrando le ciglia del cuore. Avevo incontrato lui per la prima volta e niente era più come prima.

I giorni e le notti che seguirono alimentarono l’illusione che la mia fuga l’avesse riportato a me. Parole come lampi e quella luce accesa negli occhi abbagliarono la mia deriva da me stessa. Verso un luogo dentro questa casa ma lontano da questa casa. In questa vita ma fuori da questa vita. Signora assoluta del mio nulla. Dominata per dominarlo. Negata per affermarlo e affermarmi. Perduta e decisa a perdermi per ritrovarmi. Penetrare il suo mistero e vederlo, finalmente dentro, come era veramente fatto. Non più maledetto riverbero sull’acqua. Non più pelle di schiuma senza volto.

Eppure non mi ci volle molto per capire che quella che per me era l’unica vita possibile, per lui era invece solo un gioco. L’ennesima ossessione da coltivare per rubare tempo alla morte. Così anche le mie illusioni di una doppia liberazione si esaurivano mentre quella luce corrusca nei suoi occhi si spegneva poco a poco nel riflesso opaco dei giorni.

Quanto tempo ci vorrà perché io mi dimentichi veramente di tutto? Quante volte ancora dovrò uscire al mattino per andare a lavorare nella speranza – puntualmente delusa alla sera – che lui si sia dissolto nella nebbia di un autunno precoce?

Ma adesso basta pensare. Basta rimasticare il bolo di quello che è stato. Mi sento sfinita, le ossa rotte. Forse riuscirò a dormire un po’, nonostante tutto. E domani gli parlerò di nuovo e lui mi ascolterà muto, guardando attraverso di me come sempre. Se solo il sonno venisse.

Dimmi cosa stai sognando, descrivimi cosa vedi, mi dice Lara seduta sul letto al mio fianco. E io vedo il buio sciogliersi come pianto nei miei occhi. Una donna entra nella stanza che ora è il grande mare dei veli d’acqua. Ha un velo di acqua scura sul volto come un lungo velo da sposa ricamato con i capelli degli annegati nel grande mare dei veli d’acqua. Ci indica con la mano uno per uno e all’indice ha un anello con un occhio di bambina con lunghe ciglia che ci guarda dietro un velo di lacrime uno per uno mentre scende sui nostri volti un velo d’acqua scura che si apre lento nel grande mare di veli d’acqua come pianto di annegati nei nostri occhi. Il mondo piange il suo mare perduto mentre tutta l’acqua rifluisce in un punto lontano tra gli occhi del sogno.

Dimmi cosa stai sognando, descrivimi cosa vedi, mormora una voce bassa dentro il sonno. Lui è qui adesso, vicino al letto e respira forte. Si abbassa verso di me e il suo profilo nella penombra si fa netto di nero. Resta fermo a guardarmi e io chiudo gli occhi. Non un movimento, non un respiro. Solo il pallido calore della sua mano sul mio braccio. Poi uno strappo improvviso che lacera l’aria, le coltri gettate di lato e la sua mano schiacciata sulle mie labbra. Sento che sta per accadere di nuovo e il déjà vu mi paralizza. Non riesco a muovermi. Voglio alzarmi andare via liberarmi da quella stretta sulla mia bocca ma non posso.

Tutto cade in me dentro un battito di palpebre e lui mi lega dietro il collo un bavaglio – una sciarpa forse. E i miei polsi sono chiusi nella stretta di una cintura e le mie braccia sollevate in alto e legate all’altezza della spalliera e le mie dita stringono l’ottone freddo e la testa mi gira e la gola mi si graffia in un lamento non mio. Fa freddo al buio, pure i pori della mia pelle sono irrealmente aperti e mentre irrealmente aspetto quella caduta nel vuoto che ricordo appena, la mente tenta disperatamente di ristabilire i legittimi percorsi del desiderio e si rifiuta di credere che la salivazione è già azzerata e che gli umori compressi da fibre e muscoli già traboccano fuori dagli incavi che dovrebbero contenerli e il mio corpo si scioglie nella vertigine dell’attesa e tutto intorno diventa lentamente velato d’acqua profonda.

Non so quanto tempo è passato. I miei occhi sono spalancati nell’oscurità e non vedo niente altro adesso, solo il mio altro corpo. Sono dentro di lui e non ho più corpo se non il mio corpo morto in vita. Nudo e bianco, che riemerge da queste acque grondando di se stesso e fluendo tra le sue mani che si bagnano nella mia stessa acqua e scendono dentro il mio profondo, sfiorando velo d’acqua dopo velo d’acqua e aprendolo di nuovo alle sue labbra. Da sempre e per sempre, il greto della mia anima si congiunge e si fonde con la riva del mio corpo morto che scorre lontano in vita quando la lingua del mare affonda dentro la mia ampolla e spilla gocce di brina dal mio cuore. I miei lombi si tendono in volo per non spezzarsi e l’onda scura che viene da lontano dentro di me si solleva alta a guardarci con l’occhio del dio e si precipita a sommergerci, annegando anima e corpo in forma d’acqua e si scontra contro il frangente della mia sete ritornando io stessa subito alta impazzita d’acqua a bere vorticando per un tempo che non so dire prima di precipitare in lui ancora una volta, acqua scura dentro acqua scura.
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venerdì 12 marzo 2010

Romanzo infinito / seconda sequenza


Orbe di Mezzo

Preghiera per la fine

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Signore,
da’ a ciascuno la sua morte,
dalla tutta inverata dalla vita;
ma dacci vita prima della morte
in questa morte che chiamiamo vita
Patrizia Valduga
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I Velati non sono umani, io lo so.

Li ho sentiti cantare lontano, litania di cembali oltre le rovine di Gerico, mentre un cielo d’alabastro si abbassava veloce sulle teste dei danzatori di corda. Le undici grotte di Qumran vibravano come carne percossa dal vento e io udivo le voci velate chiamarmi sulle rive del Mare del Sale ancora una volta. Ero in pace con l’Intento, allora. Ma quello era un altro eone e il sacro disegno dello Yantra era ancora impresso sulla sabbia.

Non ho mai voluto credere che i Velati erano Tuoi messaggeri, fino a quando, ormai consumato dalla mia immortalità, non ne ho incontrato uno.

Notte senza occhi cade lenta sulle cose. Una bora sottile lucida le pietre del grande mausoleo di Reqem. Il vento è rasoio sulla pelle e spira le antiche parole del roveto in fiamme. Tutta la luce sgorga da un grumo di ghiaccio nella gola del Siq. Una medusa di vetro, trasparente di sangue bianco, trema appena, risuonando di Te. Mi fermo ad ascoltare la lingua liquida dei Nephilim. Abbracciato alla roccia, per non farmi portare via, piango tutte le lacrime di Ish Kariot.

Perché, mio Eloha? Perché hai voluto che risalissi il fiume degli uomini fino alla sorgente del dolore? Perché hai voluto che mi nutrissi così a lungo del loro nirthyana? Per gli Abitatori di Fuori il latte divino della paura è così dolce ma quanto amaro è il sangue versato dagli umani nel Tuo scannatoio.

Ti prego, mio Eloha, richiama i Velati e sazia la fame di tenebre dell’Intento. Ti prego, concedi agli umani il dono della morte senza ritorno in vita. Per una volta sola, ascolta le preghiere del tuo servo Azrai’l. Sigilla le sette porte di Atharva e nessun uomo rinascerà più dannato. Il genere umano si estinguerà contro la volontà dell’Intento ma il cosmo rifluirà finalmente in se stesso per il secondo ciclo di Yantra. E alla fine del tempo io sarò libero. Si spegneranno le grida dei figli dell’uomo, nascituri alla morte senza fine, e non mi imprigioneranno più nella terra di Vanth. Sarò libero di lasciare il Limbo Velato e la sua velenosa caligine eterna.

Ti prego mio Eloha, sacrifica una sola volta i disegni dell’Intento. Salvami dalla non vita. Tu che sei il solo Dio delle genti, salva i tuoi servi dall’incarnazione.
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giovedì 11 marzo 2010

Firulero

Fischi solitari s'aggirano per la campagna, come lame in codice per bestie fedeli minacciosi brillano, fradici di saliva irrompono tra i cardi per vestirsi ad urto e schiantare nei fossi.
Li cercai, di questo periodo.
Scivolai per le ripe fino a scorgere la loro ecatombe: un'orchestra di respiri esalati a richiamo sepolta viva dalle trame oscure di roveti e malepiante, una fossa comune di adagi melodiosi come muggiti in un mattatoio.
Ne colsi l'eco musicare l'aria e mi sentii uscire dalle labbra di Dio.

Passò una ragazza.
Passò un camioncino.
Il fischio meccanico del clacson agitò la ragazza: chissà quanto intimamente, chissà se per rabbia o per piacere.
Gli omacci sui camioncini fischiano sempre alla ragazza, o suonano il clacson perchè hanno la sigaretta in bocca. Se hanno la sigaretta in bocca, gli omacci sui camioncini suonano il clacson con le dita gialle, mentre col catarro fischiettano un requiem ai loro polmoni intrisi dallo stesso catrame che la ragazza calpesta vendicativamente coi sandaletti.
(Per sedare la rabbia o il piacere, la ragazza vorrebbe fischiettare: ma il rossetto che ha sulle sue labbra è davvero troppo.)

Fischi solitari s'aggirano per la campagna, come tritolo in cinta ai kamikaze spostano l'aria dando il rosso all'azzurro dei depliant patinati.
Lo cercai, questo rosso.
Giunsi ad un rudere bruciato e ne trovai le tracce, rosse come il mio gruppo sanguineo, quello raro, quello di un maiale, che si mangia, si mangia e si chiama il cagnetto con un fischio per dargli gli avanzi.
Continuai a camminare e, vedendo le mosche rincorrermi, pensai agli scherzi tra scolari. "Fischiafischia" mi suggerivano, mentre schiacciavano il mio povero capezzolo tra i polpastrelli. Ridevano tutti tranne me. Vidi tutto rosso e impazzii.

Ora va meglio, sto dai preti e fischio tutto il giorno dalla torre medioevale.
Da quassù vedo tutta la valle e sento il clacson delle corriere suonare in curva. Poriporipò.
Sento il pastore bestemmiare in macedone. Poriporipò.
Sento anche il fischiettare della ragazza, qualche volta, se non ha il rossetto.
Poi ricomincia a piovere, il rosso scolora
e mi sento piccolo e ovunque, mai grande e in nessun posto.
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lunedì 8 marzo 2010

Appunti per il soggetto di qualcosa, impossibile dire cosa / 1

di Stefano K.

Diffida delle parole. Del messaggio, del parlare, dello scrivere. Della comunicazione, dell'informazione, della disinformazione. Capisce ormai solo il piangere, il ridere e il loro rumore. Il resto gli provoca cinismo e nausea. Diffida delle immagini, del vedere, della percezione. Non crede a ciò che gli cade addosso o a quello che cerca. Diffida definitivamente delle persone e dell'umano. Perciò non ha rispetto degli altri né di se stesso, per rigor di logica. Detesta le mode, i cambiamenti, le ritrovate certezze e i propositi. Non accetta neanche il dato da sempre, le continuità: non ha mai creduto nell'eterno. Lo ha fatto e si è sentito in seguito molto stupido. Per istinto presume che la felicità sia un impulso animale e non pone in questo un valore di giudizio: dal giudizio ha preso commiato da tempo. Non crede si possa sfuggire mai completamente dall'istinto, dal pensare e dal dubbio. Lo conforta credere che queste astrazioni portino all'azione e al dinamismo, ma diffida al contempo dell'eccesso di una nei confronti delle altre. È convinto che “attesa” sia una parola fondamentale del proprio carattere, ma non sa se questo sia vero in quanto è lui a essere così o se anche questo sia lo stato epocale che lo circonda. Attesa è anche per lui riportare il presente già al passato e dal passato allontanarsi. Sostanzialmente, vive morto. Ama la casualità, l'epifanico, il criptico, l'eccezione. Ci gioca come un bambino. Perciò ama contraddirsi.
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venerdì 5 marzo 2010

Soli d'Agosto, discesa e declino di un verme di gruppo

di Conorotto

PRIMO
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Soli d'Agosto è un trio di idioti trentini dediti alla sporcizia sonora almeno quanto all'insulto reciproco. Nati come Soli in formazione dualisticamente fallimentare, s'apprestano ad incrementare il numero dei componenti (nonchè l'inconsistente potenzialità del loro talento) in un pomeriggio d'agosto del 2007. I Soli d'Agosto sono amici, ma si sopportano malvolentieri. Anche per questo tendono a vivere in città distanti tra loro, mantenendo un regime di attività sporadico e il più possibile avvinazzato e balordo. Nel febbraio 2008, però, decidono di incidere le loro prodezze, scegliendo lo studio di registrazione di un amico piuttosto incompetente; costui perderà il master delle tracce registrate in circostanze oscure, rendendo vano il lavoro prodotto, ma donando ai Nostri un'aura di sfiga mitologica e di mistero buffo senza eguali. Le esibizioni dal vivo si riducono ad alcuni concerti casalinghi e a session sbilenche in sale prove altrui. A febbraio 2009 si ritroveranno con cipiglio recidivo nello stesso studio di registrazione capitolino per ritentare la scalata alle classifiche mondiali con ciò che anche i più scettici già definiscono "disco dell'ano".

SECONDO
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Le nuove sedute di registrazione rivelano fin da subito le lacune teorico-pratiche che attanagliano i Nostri al ruolo di meri osservatori del di loro declino performativo, tanto da far eliminare dal progettato triplo album in vinile numerose tracce mal interpretate dai di loro arti, riducendo il tutto a una demo con 4 inni a un noto antidolorifico solubile, e a un packaging di una bruttezza disarmante. Poveri ma non belli, i Soli d'Agosto cominciano così ad assillare con e-mail minatorie conoscenti e colleghi, al fine di trovare qualcuno che li lasci esprimere sul palco la di loro idea di esibizione: quarantacinque minuti di martellanti fuoritempo, insulsi arzigogolii, canti fuori sincro e umilianti movenze da rockstar in andropausa, il tutto spruzzato di malcelata dipendenza da beveroni vodka/orange made in Eurospin. Grazie a un nugolo di squinternati pisani, il primo maggio 2009 inizia una zoppicante stagione di concerti, segnata da un debutto al fulmicotone allo "Sperimentalindie Festival" di Col t'ano, a fianco di Brown vs Brown, Nurse, Luther Blissett e altri, debutto che resterà nella storia dei debutti come il "debutto de sotto".

TERZO
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Un bel dì avviene quel che ogni band emergente desidera: un molisano dai capelli rossi li avvicina in modo ambiguo. Il terroneo Malcolmo McLaren espone Loro un progetto di proselitismo culturale delle zone più regresse e grette del Belpaese, con concerti in posti vuoti, umidi e costruiti senza criteri antisismici. All'udire quest'ultima parola i Soli fanno un balzo; poi un altro. Se la fanno ripetere: "antisismici". Si consultano gridando e gagliardi rispondono: "In missione contro i servizi segreti deviati? Affare fatto, ma i deviati siamo noi". Tutti in sella al Berlinguer, si parte per il PROVINCIA INGRATA TOUR. Tappa a S. Severo di Puglia (località nota per i furti d'auto), Montenero di Bisaccia (paese di Tonino di Pietro) e Montefalcone nel Sannio (43° a est di vostra madre): bagni di follia, kapraoke, interviste gargarismiche, circhi di zenzero, madonne post-atomiche, birilli che imprecano, falene suicide, biculi, patanie fritte, ginlemon on the beach, carabinieri dirimpettay e tanto, tanto proselitismo. Il pubblico comincia infatti a masticare il groove cagionevole che la band propone; mastica, deglutisce, rigurgita e torna a casa piena di sè, consolata dal sapere dell'esistenza di tre persone tanto imbecilli quanto incapaci. Durante un'esibizione appare addirittura uno striscione che recita "tornatevene tra le mele, vermi". Ma i Nostri non si scoraggiano e, finito di incitare il meridione d'italia alla sassaiola verso il palco, si preparano a far incetta di commenti sprezzanti per tutta la penisola, con una serie di concerti che Loro stessi, intimamente, sperano di non dovere fare mai.

EPILOGO
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Passa qualche mese e il chitarrista Tosorela si ammala di "guitar-error", sindrome che porta le vittime al rigetto verso le sei corde e, molto spesso, a una meritatissima dispepsia biliare. I Soli tramontano, scivolano aldilà delle dune a violentare altre madri (cit.). D'Agosto, rimasto solo senza Soli e con lo scettro del leader maximo impiantato nel culo, si dedicherà all'onanismo agreste vita natural mollante. Che l'aids lo assista.
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lunedì 1 marzo 2010

Romanzo infinito / prima sequenza

di Kharim Chaloub
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Non venire mai alla luce può essere il più grande dei doni
Sofocle
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Non c’è niente di meglio per prepararsi a morire che scrivere un libro. Se poi fosse il libro mai scritto, la morte sarebbe perfino dolce. E la voragine meno profonda.

Il libro dei libri dovrebbe contenere il mondo ma anche superarlo. Ucciderlo nel corpo per resuscitarlo nel sogno. Di tutte le infinite strade dell’uomo, dovrebbe tracciarne una sola senza fine. Di tutte le visioni finite dell’universo, vedere finalmente solo la fine. E se solo un disincarnato può questo sguardo, allora un uomo dovrebbe scrivere come se fosse morto. Anche se un uomo non saprà mai di essere morto.

Sono qui e ora. Da solo, in questa stanza vuota e in penombra. Sto per morire perché l’aorta mi è scoppiata nel petto. Posso quasi sentire il sangue riempire le cavità interne. Come un velluto bagnato e caldo coprire la gola. Sto per fare l’esperienza della morte. Aspetto che arrivi. I secondi passano e non succede nulla. Sono ancora qui e ora. Poi, un secondo dopo, non sono più. È arrivata la fine, senza che la percepissi. Sono morto senza conoscere la morte. Un momento prima la stavo aspettando, il momento dopo era già passata. Come ha intuito il diafano carnefice di Littell, non si può provare la morte perché la morte non esiste.

Un solo libro per la vita. Tutta la vita per un libro. Come la vita, unico e irripetibile. Come la morte, definitivo e ineffabile.

È questo il libro che sto scrivendo, prima che gli occhi alati di Vanth mi trovino. Il libro della fine.

Orbe di Dentro

La trama del sogno

Mia figlia ha aperto la porta e adesso mi fissa con gli occhi dilatati dal terrore. Dall’anticamera dietro di lei entra un morto grasso e scarmigliato. Uno straccio lurido infilato sulle spalle gli scopre il ventre pallido e gonfio. Una ferita ricucita a maglie larghe e profonde lo attraversa dalla spalla sinistra fino al pube mangiato dai topi. L’occhio destro ridotto ad una fessura marcia nella faccia annerita.

“Sono tornato per macellarvi tutti”, dice con voce triste, senza muovere le labbra, mentre avanza deciso verso di me.

Faccio un passo a ritroso, un altro ancora e cado supino sul letto. Sento le palpebre sbattere indietro con uno scatto sordo e sono finalmente sveglio. Fuori è ancora buio e penso che prima o poi incontrerò quel morto, forse saremo vicini di tavolo all’obitorio. Le teste girate l’una di fronte all’altra, ci guarderemo senza riconoscerci.

Le mani dolorosamente rannicchiate dietro la nuca, mi rigiro nel letto senza requie. Finisco pancia a terra a nuotare in un mare di alghe grigie e umide che mi riempie la bocca. Il ginocchio sinistro infisso nell’incavo del ginocchio destro a spremere il sangue dall’arteria. Come vorrei dormire il sonno di venti o trenta anni fa, quando l’aria era alta e leggera e la notte non era una maledetta unghia incarnita che graffia tra le scapole e penetra nell’inguine.

Il mattino prima avevo sognato di essere a Gozo. Nella sera di vento salmastro c’era una lunga strada in salita gonfia di pietre scivolose che portava a una cappella e a un grande crocifisso di legno. Una vecchia vestita di nero stava china sull’uscio di casa a snocciolare tra le dita secche un lungo rosario fatto di piccoli denti bianchi e quadrati tutti uguali. Salivo a fatica la rampa di pietra, ventre a terra, scivolando indietro ad ogni passo e tenendomi con le mani alle pietre muschiose. A un tratto la vecchia mi ha guardato e ha aperto la bocca per dire qualcosa. In quel momento, il selciato ha avuto un sussulto verso l’alto. Ho perso la presa e sono caduto all’indietro urlando, trascinato verso il basso da una vertigine irresistibile, sempre più velocemente in un vortice roteante per una eternità.

Mi sono svegliato, la gola esplosa, ancora con le mani rattrappite dietro la nuca, nel gesto di resa di chi sta per essere fucilato. Niente male come messaggio simbolico. L’inevitabile caduta nel Tartaro della perdizione dopo avere appena intravisto la luce della salvezza. Da quando ho superato i quaranta, si sono incanutiti anche i sogni. L’orrore rassegnato e malinconico del primo Ingmar Bergman.

Bergman e la teoria della paura epocale. L’orrore adolescenziale del Freddy Krueger di Nightmare e il brivido puberale di Scream, intrisi delle facili pulsioni sessuali della carne fresca da macellare, contro l’incubo senile de Il posto delle fragole. La bara che scivola lentamente dal carro funebre nella via deserta, il coperchio che si apre inevitabilmente a mostrare la mano viva di un cadavere invisibile.

Tutti i vecchi prima o poi si sentono così, atrocemente vivi in un corpo morto.
Quanto tempo impiegherà ancora l’incudine per toccare il fondo del pozzo?

Sono nello studio ora, seduto davanti allo schermo bianco. Il ronzio della ventola mi richiama al sonno. Ma non posso dormire, devo scrivere, anzi riscrivere I privilegi di Stendhal. Devo farlo adesso, subito, prima di incontrare nuovamente l’amico dalla lunga cicatrice.

Il buon Marie-Henri Beyle, seduto innanzi a un foglio bianco la mattina del 10 aprile 1840, doveva preoccuparsi delle sue emicranie e dell’innamoramento nascente per la misteriosa Earline. Malediceva per l’ennesima volta la sua faccia rincagnata da nain e desiderava avere una mentula comme le doigt indicateur, pour la dureté et pour la mouvement. Il realismo romantico del grande autore de La certosa e de Il rosso e il nero si risolveva nel desiderio di conservare in perfetta salute il suo stelo di giada, senza problemi di soldi fino alla morte per un colpo apoplettico nel proprio letto.

Io invece, questa mattina senz’alba del 1 gennaio 2001, devo preoccuparmi del mio occhio sinistro che ha ripreso a sanguinare e di questa benedetta turca che non si decide a farsi viva. Devo preoccuparmi che ormai da mesi non riesco a scrivere più di due pagine di seguito e che presto la cura esaurirà il suo effetto.

Sono qui, lucido come un martire alle quattro di mattina, ad invocare Stendhal. E sono un senzadio pronto a vendere al diavolo la mia anima e anche quella di mia figlia per conservare in perfetta salute il mio stelo di giada, senza problemi di soldi fino alla morte per un colpo apoplettico nel mio letto.

Ma quest’anno la Terra si troverà 623 giorni dietro la cometa Tempel e il 17 novembre, per la prima volta dopo 33 anni, lo sciame meteorico delle Liridi raggiungerà il climax astronomico.

Sulla terra si abbatterà una tempesta fotonica di proporzioni inaudite e i Nephilim saranno risucchiati dal gorgo di luce nell’Orbe di Dentro.
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