martedì 26 gennaio 2010

Passa il tram

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Questo scritto è apparso, con variazioni minime, sul portale letterario-cartografico microcenturie.
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di Giampiero Cordisco

Devo averci fatto l’abitudine o cosa, come con la pendola in casa dei miei, ad esempio, quando i colpi sordi che segnavano i secondi avevano coperto tutto lo spettro acustico dell’ambiente, restituendo una versione contaminata di quello che comunque – in virtù di una segreta e generalmente accettata convenzione fra apparato uditivo e fisica acustica – poteva ancora dirsi “silenzio”, tanto che nemmeno ci facevi più caso (un secondo dopo l’altro dopo l’altro ancora, per ventiquattr’ore al giorno, tutti i santi giorni dell’anno chissà per quanti anni, finché mio padre non uscì di testa quella notte di Sant’Antonio quando mamma gli diede il benservito, spaccando la pendola in tanti di quei pezzi che il più grosso potevi raccoglierlo con le pinzette – ma questa è decisamente un’altra storia): fatto sta che mi tocca fare uno sforzo di astrazione per sentire i tremori sotto i piedi e notare l’impercettibile movimento della schiuma nella birra sulla scrivania, e le penne che si spostano in maniera infinitesimale sulla mensola di vetro da cinque millimetri, e il lievissimo effetto stroboscopico della lampada alogena sul soffitto che perde d’intensità e subito dopo torna a regime per quelle tre-quattro volte al secondo, tutto questo per un lasso di tempo di almeno venti secondi che è più o meno quanto impiega il 19 direzione Gladioli ad attraversare questo pezzo di strada. I libri intanto assorbono i colpi e quelli che stanno più in alto nelle due pile di volumi che ho eretto sul comodino sembrano cedere pian piano alla perdita dell’equilibrio. Le ante dell’armadio sbattono con una frequenza che può essere quella dei colpi d’ala del colibrì, e così anche il termosifone sotto la finestra, arrugginito e parkinsoniano. All’interno delle mura riusciresti a indovinare il tragitto della scossa, il tremito che sonda le capacità elastiche dell’edificio, che insegue senza successo un punto di rottura qualsiasi. Le camicie si sfregano dentro il guardaroba, e le grucce di metallo rimaste vuote abbozzano una melodia percussiva e vagamente cristallina che ogni volta mi propongo di registrare, insonorizzata nella cavità risonante del mobile, dentro il truciolato scandinavo. Riesco a sentire i piatti sporchi lasciati nell’acquaio che seguono la loro partitura, in questa sinfonica involontaria e contingente, e i filtri Rizla™ di cotone dentro la confezione cartonata che frusciano come maracas in una stanza imbottita. Il lavandino sgocciola un tempo dispari incalcolabile. Va bene: sì, ma con riserva.

Perché prima o poi tutto questo finirà. E ci ritroveremo a lottare con la sveglia e la baby sitter e la rata del mutuo e l’imposta condominiale e il vicino ottuagenario che si lamenta perché il piccolo piangerà di notte come facevo io quando mi impegnavo a distruggere i nervi già poco saldi dei miei poveri genitori.

Ma intanto restiamo qui, col 19 direzione Gladioli che raschia sulla crosta terrestre e sfrega i chilometri di rotaie che hanno cicatrizzato la terra, e se fossi uno agli inizi potrei solo scrivere che “sferraglia”, proprio come il mare “sciaborda”, ma dal momento che agli inizi non ci sono più da un pezzo, e che ormai mi pettino i capelli all’indietro, e che ho smesso di credere che quello che sto facendo sia soltanto ispirazione e intimismo romantico, so bene che esistono modi e modi – e allora quando passa il 19 direzione Gladioli sembra che debba crollare il mondo ma in realtà è solo una porzione del silenzio più generale che ci avvolge, e il suo idioma siderurgico si allontana maestosamente con solenne lentezza – questo mostro di acciaio e plastica che non intimorisce più nessuno – roboando fino alle profondità estreme del pianeta dove bruciano i gas dell’esplosione primordiale che ha scolpito i reticolati stellari, in un doppler apparentemente infinito, eterno, geologico, che ci fa vivere costantemente e in maniera semi-inconsapevole nella dissolvenza di un tuono minaccioso e familiare al tempo stesso, nel digradare di una tempesta tropicale che ha sbagliato continente, subito prima che tornino a ciurlare disorientati i volatili di ogni specie e di tutti i colori, e prima che il riflesso del sole – che continuerà oggi domani e sempre a fare lo yo-yo in questa parte di universo – si disintegri magnificamente attraverso i goccioloni incollati sulle foglie carnose di una vegetazione irriconoscibile, io davanti a uno schermo che mi renderà ipovedente nel giro di qualche anno e la donna di cui sono innamorato che continua a vomitare in bagno la sua prima gravidanza, e sembra che ce la facciamo, in questo buco di casa che non abbiamo costruito noi, e prima o poi ci compreremo un televisore al plasma, un divano nuovo, e una culla che dondolerà senza che noi ci facciamo caso.

Ogni volta che passa il tram.
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lunedì 25 gennaio 2010

Il bassista degli Amanda Knox dice che non ce la fa più

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Prima della lettura: lo scritto che segue è scaricabile e stampabile da questo pdf. Nessuno avrà da ridire se per salvare le vostre diottrie rischierete di contribuire alla deforestazione del globo. Tuttavia, usare carta di riciclo è un gesto di intelligenza e di civiltà.
Buona lettura.
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di Giampiero Cordisco

Signori: non è questo il punto.
Voi continuate a fraintendermi e la cosa mi dà fastidio, perché in qualche modo devo considerare l’ipotesi che lo facciate deliberatamente. Davvero. Se dico "non è questo che voglio" voi pensate subito che vi voglia pisciare, che me ne voglio andare con chissà chi, imbarcandomi per altri progetti che contemplino anche ipotesi immaginarie come suonare in posti più gratificanti, lasciando i beati Amanda Knox privi di molta parte della sezione ritmica, a brancolare nel buio.
Non è così, vi dico. Non ci sono side project, non mi interessa suonare con altri perché forse non mi interessa più davvero suonare – ed è questo il nocciolo della questione.
(Adesso non spaventatevi, il discorso è più complicato, non c’è bisogno di prendere tutto alla lettera.)

Il fatto è che io credo che ci siamo rinchiusi in un angolo che sta diventando man mano più stretto, e non vi posso negare che se ci penso davvero a fondo tutta questa situazione mi sembra un gioco a perdere che ormai non ha più nessuna via d’uscita. È un vicolo cieco, non so se mi spiego. A un certo punto uno sente l’urgenza di un chiarimento, soprattutto verso se stesso. Con questo non voglio dire che è necessario da parte di tutti e tre un atto di coscienza riguardo a quello-che-abbiamo-sempre-voluto e a quello-che-è-stato-fatto, e sulla base di questa specie di equazione stabilire poi delle direttrici per il futuro in cui l’altra costante fondamentale è quello-che-vogliamo-adesso. No: vi dico solo che per me funziona così, è un’esigenza alla quale non riesco neppure lontanamente a pensare di volermi sottrarre, e in fin dei conti mi sembra tutto riconducibile proprio a questo: al volere, alla costante della volontà personale, a quello che si stabilisce come linea guida essenziale per la propria condotta umana. Al desiderio. Di più: al desiderio del desiderio. Alla Sehnsucht, se mi passate il rigurgito romantico.

Ognuno ha dei doveri verso se stesso – su questo mi sembra siamo ormai d’accordo – verso se stesso come persona e poi verso se stesso come tra virgolette artista, ammettendo che questa parola non ci faccia ormai schifo, e tenendone ben presente la curva d’inflazione di questi ultimi anni, e poi ci sono doveri ulteriori che da questi doveri basilari si diramano tipo ad albero, perché la mia convinzione più vera, la mia necessità più inevitabile e ingombrante adesso è quella di affrontare il discorso dell’interazione, della comunicazione eccetera, di tutto ciò che riguarda il messaggio che si trasmette al di là dell’egomania del mittente, e forse anche al di là delle peculiarità contingenti del canale cui affidiamo quello che abbiamo da dire.

Io ho bisogno di sapere cosa succede al messaggio che comunichiamo al destinatario una volta che questo messaggio viene recapitato nella sua mente passandogli per le orecchie. Il destinatario. Ok: chiamatelo anche pubblico, ascoltatore, persona depressa che ascolta musica tosta per tirarsi su dalle brutture delle sue proiezioni mentali o per affogarci definitivamente. Chiamatelo come vi pare. Non mi sembra davvero il caso di sottilizzare. E lungi da me l’idea malsana di mettermi a fare morali e pedagogismi grossolani, so benissimo che può anche essere che non ci sia assolutamente nulla da comunicare, da insegnare, da suggerire, ma voglio solo dirvi che questa forma di nichilismo concettuale delle arti musicali così come le conosciamo oggi – con la benedetta coda lunga che ci livella tutti in questa specie di mare magnum di lavori magari strepitosi e fondanti e tra virgolette seminali ma in fin dei conti scontati e dimenticabili all’interno delle migliaia di uscite mensili, e che ad ogni modo ha esasperato al parossismo la carica del post-punk di allora, cazzo – questo svuotare ogni concetto e ogni pretesa verso il nonsense e l’anomia più superficiale mi induce a credere che in realtà non si arrivi a cogliere un significato nella Cosa, che non si arrivi nemmeno lontanamente a concepire di avere tutte le facoltà e le carte in regola per tentare l’assalto al senso, per provare l’ebbrezza superba e a questo punto blasfema di sezionare l’Esistente e spremerne il succo semantico, che sono convinto di poter provare ad avvicinare, con molta calma, col duro lavoro, con l’impegno quotidiano, un giorno dopo l’altro, per uscire da questo piattume di idiosincrasie e rumori piazzati lì solo come vessillo di una manifesta incapacità e impossibilità ad accedere al senso. Costruire, vi dico, invece di distruggere ogni volta, edificare qualcosa su cui poi edificare qualcos’altro e via dicendo. Non si può continuare a distruggere in eterno, già adesso non è rimasto niente e noi stiamo solo continuando a giocare con le nostre feci e con i cadaveri dei nostri padri che non siamo nemmeno stati capaci di seppellire degnamente – la rappresentazione della realtà nella musica, proprio quello, ci siamo intesi.

È da un po’ che sto ripensando a tutti questi discorsi, alla mimesi, al processo creativo che imita e condensa l’Esistente in una cosiddetta opera, al reale filtrato e setacciato per mano del cosiddetto artista, al ruolo di questo cosiddetto artista, alla parola “impegno”, alle implicazioni negativissime dell’isolazionismo come diniego ultimativo del rapporto basato sulla condivisione di un messaggio, quale esso sia, di un qualcosa di detto da una parte e recepito da un’altra. Non voglio pensare che si possano progettare guidare e attuare le tra virgolette rivoluzioni, non è questo il fine del ragionamento, ammesso che queste divagazioni possano assumere dentro di me delle finalità positive e oggettuali. Non credo che si potrà fare politica e dare un significato di costruzione politica alla musica, su questo siamo d’accordo così come lo siamo sempre stati. Ma non voglio nemmeno pensare che il nostro fine ultimo sia quello di assecondare le pulsioni più autoescludenti di quei pochi che invece avrebbero bisogno magari di piantarla con queste cazzate e di ascoltarsi un po’ di radio in FM mentre se ne vanno al mare con quei pochi amici che hanno e che si stanno impegnando (i primi) a evitare perché a un certo punto nella propria vita di fruitori musicali qualcosa è andato storto, o è stato premuto troppe volte un tasto sbagliato e dal nulla si è verificato un cortocircuito cerebrale che di colpo li ha messi a conoscenza della irrisolvibilità di una rappresentazione non dico pacifica ma almeno impegnativa e costruttiva della realtà. E guardate che questo percorso l’ha vissuto ognuno di noi: inizi con qualcosa di vagamente iconoclasta magari americano magari il grunge, passi per l’industriale andandoti a ripescare le vecchie guardie di tutti i filoni di musica distruttiva che con sommo piacere hai scoperto nel frattempo, inizi a coltivare la frattura, la ferita diventa pian piano insanabile dopo che già sono saltati i primi punti di sutura (applicati inconsapevolmente quando si prova ad ascoltare un prodotto post-punk più confortante – che so: i Talking Heads? E’ un esempio fra mille), poi arriva una lenta e inesorabile cancrena di ascolti sempre più totalizzanti e massivi che infine ti portano ad una prima morte, che è la morte del senso, o meglio: la morte della volontà di impegnarsi nella ricerca e nella codifica del senso. E quindi la musica diventa solo perversione e autodistruzione. E ne vuoi sempre di più, e tutto questo può sembrare una distorsione perfettamente romantica del concetto di titanismo e di quello beneamato di nichilismo, ma io mi sto chiedendo, se non l’aveste ancora capito, se tutto ciò porta da qualche parte, se esiste un riscontro minimo, se vale ancora qualcosa dire che niente ha più un cazzo di senso, o se piuttosto non si dia il caso di riflettere sul fatto che tutta questa massa di negazioni e di profanazioni e di iconoclastìe storicamente accumulate non si sia nel frattempo sedimentata e stratificata e non ci permetta adesso di lavorare in maniera positiva, cioè costruttiva e non autoreferenziale, a una materia sostanzialmente nuova, inedita, inaudita, in modo da poter finalmente risanare la frattura e dedicarci alle esplorazioni di tutte le dimensioni utopiche ed eucroniche sottintese al cosiddetto potere della musica.

Sapete una cosa? Il giorno che ho compiuto trent’anni ho sentito come squillare un campanello, appena sveglio, e guardandomi allo specchio ho notato la stessa identica persona che avevo sempre visto riflessa. Nessun cambiamento sostanziale, i capelli sempre quelli, la faccia impenetrabile, lo sguardo quasi cattivo, una giusta angolazione delle orecchie, le proporzioni generali più che a posto come lo erano sempre state. Però non mi quadrava tutto. Era come se dentro fosse, in qualche maniera inspiegabile, cambiata la fisionomia. C’erano degli allarmi che suonavano a una distanza imprecisata, e a me, alle mie orecchie, al cervello, questi allarmi giungevano così attutiti ma allo stesso tempo inevitabili, e non riuscivo a farli smettere. Lo stesso accadeva sotto la doccia, anche se avevo aperto l’acqua a una pressione mai sperimentata, e poi durante il caffè. Sentivo tutti questi segnali. Avevo trent’anni. Ho trent’anni. E non posso più permettermi di perdere pezzi di vita, né di continuare così, nell’indecisione più sfrenata, a fare il vuoto delle esperienze accumulate nei ventinove anni precedenti. Come se ogni cosa esperita venisse a chiedermi conto, capite? Era questo il senso di quello che avvertivo come un ultimatum. Era come se qualcuno o qualcosa mi dicesse che quello era il momento di tra virgolette tirare le somme, fare i conti, chiudere delle porte, aprirne altre. Quello che ho fatto finora viene a chiedermi di dare una sistemata alle cose, individuare un senso che sia coerente e positivo, capire chi cazzo sono io. E che voi possiate crederci o meno tutta la storia con Federica non c’entra nulla, anche se è normale che da qualche parte possa far male, una ragazza che dopo cinque anni ti lascia senza uno straccio di spiegazione, con un foglietto sul tavolo in cucina su cui scrive: “Perdonami, ho bisogno di una nuova intimità. Non farti del male”. Ma vaffanculo, tu e la tua nuova intimità. E io che scelgo di non farmi del male.

Perché dopo aver finito il caffè, la mattina dei miei trent’anni, ho capito che sarebbe stato tutto infinitamente più complicato del semplice atto di oblio del mettere da parte una storia d’amore finita così, e ho preso quel bigliettino che tenevo da cinque mesi dentro l’agenda e l’ho strappato in mille pezzi piccolissimi che ho fatto volare dalla finestra, indovinando in quel volteggiare tutto il significato di ciò che mi aspettava e che ancora mi aspetta.

(Avreste dovuto vederli, quei minuscoli pezzi di carta che se ne stavano lì, nell’aria grigia del primissimo mattino in cui tutto il mondo sembrava avere il colore dell’asfalto vecchio, librandosi vinti dall’inerzia della corrente ascensionale che saliva dalla strada e arrivava al terzo piano del mio appartamento, galleggiando nella leggerezza della carta al vento tanto più che la carta era ridotta alle dimensioni di un’unghia e il vento era ancora freddo della notte che se ne andava pigramente, scoprendo il cielo ridotto a una placenta di cenere, quei pezzi che ondeggiavano senza andare da nessuna parte, nè in alto, nè tantomeno in basso, rischiando così di rendere inutile e sovrastimata la mia azione di distruzione dei residui. L’avrei capito dopo qualche minuto, ancora lì coi gomiti sul davanzale, mentre tre piani più in basso iniziavano a passare le prime macchine e la signora Gualdrini si avviava per andare a messa e Black attaccava con quella stupida abitudine di abbaiare a tempo, abitudine che ormai rientra costantemente nelle varie ed eventuali delle riunioni di condominio – mentre insomma il mondo si svegliava, e ritornava alla vita di ogni giorno con tutti i meccanismi che la quotidianità aveva impiegato secoli a consolidare, io stavo alla finestra a fissare l’impasse, e a sputare addosso a questa pretesa immobilità tremolante il fumo della prima sigaretta della giornata, in un gesto che mi sembrava sacrilego nel momento stesso in cui lo esaminavo, storicizzando estemporaneamente le coordinate principali di quello che era a tutti gli effetti il Primo Momento Epifanico del Primo Giorno Del Resto Della Mia Vita. Avrei capito, avrei ricevuto un input.
Dunque: c’era la litania in tempo pari di Black e una macchina ferma allo stop che permetteva alla signora Gualdrini di attraversare sulle strisce pedonali. C’era questa luce opaca che filtrava dal cielo che aveva lo stesso colore di una prova di stampa cianografica, un riverbero ottico indeciso, così pieno di penombra. Poi il suono delle campane che sembrava arrivare da una chiesa oltre le montagne, in lontananza.
E c’era questo sciame di pezzettini di carta che fino a qualche minuto prima – prima del risveglio molesto di Black e prima delle campane che richiamavano la signora Gualdrini alla funzione del mattino e prima che venisse tirata su la saracinesca del tabaccaio – erano la lettera d’addio che Federica mi aveva lasciato sul tavolo, e la finestra sul cui davanzale appoggiavo i gomiti, e la corrente inavvertibile che saliva da dieci metri più in basso. C’ero io fisso su questi pezzi di carta che volteggiavano in tutta quiete mentre il giorno si andava facendo, con una sigaretta che già mi dava la nausea, e non avrei di certo passato la giornata dei miei trent’anni in ufficio, dal momento che da qualche parte nel mio cervello andava formandosi l’idea di telefonare e darmi malato, per il semplice motivo che per un lasso di tempo indefinibile mi ero visto davanti alla possibilità di capire, di intuire nel movimento sospeso della lettera d’addio fatta a pezzi una luce per il futuro che rimaneva – e rimane – in attesa, come un segnale che finalmente potesse essere in grado di indicarmi una tra virgolette strada, una linea di discrimine fra le cazzate e ciò-che-conta-davvero, un messaggio ineffabile, un po’ come il famoso messaggio dell’imperatore, solo con un finale diverso, col messo che dopo aver percorso tutti i mondi conosciuti riesce finalmente a recapitarti la missiva [e poco importa adesso che la lettera dell’imperatore ti arrivi in concomitanza con la distruzione materiale delle ultime parole scritte della ragazza che hai amato e che chissà se ami ancora - anzi: è un simbolismo elevato a potenza, una lettera di chiusura di un qualcosa che diventa, nella sua scissione materiale, la lettera d’inizio di un qualcosa d’altro], e al cospetto di questo compito ìmpari e in fin dei conti ingrato tu non puoi che sentirti illuminato, come i frammenti della lettera che ancora volteggiano, sospesi nel grigio-asfalto di tutto quello che vedi, in orbita gravitazionale sul giorno che inizia timidamente, ancora intorpidito, e sono di una bellezza luccicante, sono tutto ciò che cattura e rifrange la poca luce, ottimizzandola solo per i tuoi occhi abbacinati da una luminosità potentissima benché all’apparenza così fioca e semplice e in definitiva irrilevante. Ok: scusate se mi lascio andare, ma se a voi sembra poco, per me è stata la chiamata a un cosiddetto Nuovo Ordine Delle Cose. Non fate quella faccia.)

E quello che mi aspetta è ancora un gesto che rapisce, totale e direi ultimativo, vedere la vita come impegno e costruzione, ricerca del senso, comunicazione, condivisione. Non ce l’ho con voi, è con me che sono in debito, è da me che adesso devo pretendere. Niente più anomia, niente più nichilismo, basta rumori messi a cazzo. Basta, zero. Sono stufo di fare questa roba di merda. D’ora in poi voglio ascoltare solo Vic Chesnutt. Voialtri fate come vi pare. Io me ne vado.
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giovedì 14 gennaio 2010

telefonorosa

Spulcio il cane e ti penso,
ingrata.
Vittima, però:
anche tu stuprata,
dagli anni violentata
in cima all'altare lasciata e persa
di ogni detta, di ogni pensata
che il mio vecchio arnese
t'ha oramai ripudiata.
Avremmo potuto amarci,
avremmo potuto mangiarci
a lume di candela,
vestiti a modo
con abiti di cera.

E invece ti menavo,
forte del mio sesso ti sfregiavo,
eri blu come i tuoi occhi
eri nera come il pane.

Ho un posto d'onore
per la tua faccia cattiva,
quando sputavi lacrime
schivando cazzotti,
quando mordevi il cuscino
con i denti rotti.
Avremmo potuto amarci,
avremmo potuto nutrirci
anche d'aria,
non fosse stato per quella
che dalla gola ti pignorai.

Ora,
la tua faccia cattiva mi perseguita,
ma ciò non fa che darmi ragione:
così faccio spazio tra le teste
e lascio a te un posto d'onore.
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mercoledì 13 gennaio 2010

Punto di domanda della situazione non aggiornata

Si lavora a rilascio graduale: di idee, di energie, di impegni strettamente detti.
Ci sono: missaggi possibilisti, compressioni al limite della deformazione digitale. Le frequenza basse, in fondo sulla sinistra, tranciate di netto mediante expander fatti di pixel. Stessa sorte per gli hiss: i filtri che salveranno il mondo sono multibanda.
Difficile, tutto. Ma suona bene, l'immondizia sonora purgata.
Pensi a un montaggio che possa restituirti due set up differenti da usare nello stesso lunghissimo pezzo per bilanciarne le diverse strutture. La saturazione sonora. Lo spettro ridotto a una parvenza. Si rischia di sfondare la dinamica, di sprofondare nel non-colore, che però ci sta bene, la cenere grigioperla monocroma. La risultante sonora di un parassita interno a uno dei miliardi di corpuscoli che hanno espiato i propri Anni Zero, attraversandoli inconsapevoli, storicizzando solo ora, e ora c'è questo, e questo è il massimo di quel che rimane di ciò che nel secolo scorso poteva dirsi (sbagliando) "volontà di potenza".
Sembra poco: lo è? Sembra fin troppo: è tanto?
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