lunedì 30 agosto 2010

Matrice

Lo so da come mi sta guardando, o dalla generale disposizione delle cose e dal sentimento di esse, in questa successione di istanti. E so che non posso farci granché: mi appare da subito chiaro (meglio: è stato chiaro da sempre, e continua ad essere evidente in questo tratto infinitesimo della traiettoria spazio-temporale, ed è in questo angolo della piegatura dimensionale che la coscienza della cosa assume forme non prescindibili) che la decisione è irrevocabile, e a un bel nulla servirebbero i miei consigli vuoti che con tutta probabilità infarcirei di una retorica impotente. Il signore che ho di fronte ha preso la sua decisione, e questa decisione è ormai in pieno possesso di lui, nel senso che non si tratta di una presa di posizione razionalmente concepita, quanto di una suggestione concretizzatasi e avanzata in modo subliminale dentro le strutture corticali, negli angoli remoti del subconscio. È stata presa una decisione, proprio adesso, in questo preciso istante, e proprio adesso questa decisione è maturata in modo perfetto e autosufficiente all’interno del cervello i cui più lontani recessi ne hanno incubato i germi. Il signore che è qui con me ha realizzato di aver maturato una decisione. A me ha trasmesso l’evidenza di tutto ciò. La sua decisione sta nell’aria in cui siamo immersi, è il tempo ed è lo spazio ed è inevitabile.

La sua decisione è presto detta: togliersi la vita.

Nel frattempo le mura della stanza (che è spaventosamente vuota) mi appaiono improvvisamente segnate da un’umidità atavica, come se fosse stata riempita d’acqua e poi svuotata. Le pareti sono diventate verdi, sono striate di muschi spessi e viscidi, mi sembra addirittura che gli angoli dove le pareti si toccano sgocciolino ancora. E quindi tutto vira al verde più marcio e deteriore. Lui continua a indurire l’espressione del viso. È l’effetto della decisione, da cui sa ormai di non poter scampare. C’è un che di opaco nei suoi occhi, e la rassegnazione ha preso piede, definendo in qualche modo una ennesima sfumatura di colore. D’altronde so pure che questa casa ha un numero abbastanza elevato di stanze: lui entra ed esce, infatti, da una porta oltre la quale io non vedo molto. Qui dove si svolge il tutto doveva essere uno sgabuzzino. Ah: questa casa non è mia, e non è sua. Deve essere stata abbandonata da qualche mese dai legittimi proprietari, e non so per quale motivo adesso ci siamo noi. Ecco: questa è la casa del Mulino Bianco, in chiave aggiornata, adeguatasi in seguito alla fuga dei proprietari e del loro bagaglio di felicità preconfezionata come un Saccottino.

Tornando alla decisione, io non mi sento impotente: so che non posso in nessun modo cambiare il corso degli eventi che si verificheranno (ho la certezza matematica che la decisione verrà attuata in un tempo né lontano né vicino), so che non dipende da me la ricerca della felicità di questo signore, so di non poter opporre nulla alla realizzazione del fallimento cui questo signore sa di essere giunto. È arrivato a fine corsa: dopo aver provato e riprovato ad attuare il proprio elementare diritto alla felicità, sa di non averne più l’obbligo. Sulla sua faccia grigia leggo la rassegnazione. Ha realizzato la volontà di farla finita con quella che ormai è solo un’impostura a se stesso: questo me lo fa sembrare beato. Ha raggiunto una forma di saggezza, benché mi sembri tutto così tremendo.

Posso soltanto ideare dei diversivi. Da qualche parte scopro una chitarra giocattolo, rossa, modello Bontempi, quelle per i bambini. La chitarra ha solo tre corde, due delle quali di nylon (originali) e una fatta con un elastico di colore blu, spesso, della sezione di un centimetro. Propongo al signore di fronte a me, sempre più condensato nel destino che andrà a realizzarsi, di fare qualcosa insieme. Suonare, buttare giù un progetto sonoro, disegnare architetture audio. Distrarsi, non pensarci. Sbucano, non so come, altri dispositivi che tornano utili a quest’idea: mixer, registratori multitraccia, pedaliere e processori di segnale.

Finisce qui: mi sveglio, le lame di luce che filtrano da dietro le persiane. Sono nel mio letto, da solo. È un altro giorno.

Ho appena sognato David Foster Wallace.
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venerdì 27 agosto 2010

TRAVASO # 1 - Giuseppe Genna: La Vita ai tempi dell'Impero

Ma vaffanculo, dico io. In un modo o in un altro toccherà ricominciare, uscire dall'inerzia ancora estiva, ridefinire degli obiettivi, per quanto inutili. Vuotare il sacco, insomma, per riempirlo di nuovo, per vuotarlo ancora. Eccetera. Ed è chiaro che la cosa non ha senso, no no no.

Allora: quale migliore occasione per dare il via alla categoria dei Travasi, pezzi di letteratura raccolti nel mare della Rete con criteri assolutamente arbitrari. Eh: quale migliore occasione?

Il primo Travaso (con relativi dettagli) proviene da qui.


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LA VITA AI TEMPI DELL'IMPERO di Giuseppe Genna


Se devi arrivare al luogo della terapia, svolta a destra della immensa piazza dove correre è impossibile. Spezzata, diffranta piazza: ha eletto il marciume a sua natura seconda, uno strato di scaglie plastiche e organiche tra ricordi di aiuola. C’è una scuola verso l’angolo con Pellegrino Rossi. Davanti sono schierati i militari che il sindaco richiese, le tute mimetiche, i baschi scuri, l’indolenza di una foga trattenuta. Si tengono lontani oramai gli egiziani, i marocchi, anche i turchi.
La piazza è gremita, interrotta dalle rotaie dei tram lunghi e verdi, acquistati da una controllata Fiat, deragliano spesso, molti feriti a Milano per i tram che sono deragliati da quando sono entrati in funzione. Una strada verticale attraversa e si spegne nella piazza stessa al passaggio pedonale, verso la buca della metropolitana, da cui soffia un vento caldo e carico di polvere chimica. I giornali free press, invecchiati in poche ore, pagine calpestate nella fretta da centinaia di persone, stanno ingricciati tra dente e dente della griglia orizzontale gialla per lo scolo dell’acqua al termine della scalinata di granito della linea tre, la gialla.
Si prende per la pista piatta e sconnessa di Pellegrino Rossi. Passava di qui un tram, quattro binari sulla sinistra della carreggiata puntando verso fuori città. Hanno seppellito con l’asfalto quei binari rugginosi, nemmeno li hanno estratti dalla loro sede, per allargare via Pellegrino Rossi, e dopo un anno emergevano pezzi di rotaia ossidata arancione, a passare in moto si scivola, si muore.
Hanno ricostruito tutto, abbattendo tutto. Il centro polifunzionale policolorato Virgin. Sulla destra sono crollate le case svuotate, malsicure, l’odore di coniglio bollito e carne in umido ormai impregnava le pareti, le scale emanavano un vapore di stantio e minerale. Abbattute da giganteschi rostri, macchine che scagliavano enormi piombi sferici, le facciate come volti tumorati, sfondati da un carcinoma, da un’esplosione ossea: non dall’esterno, ma dall’interno.
Vado verso il neurolaboratorio, ad Affori, l’ultimo quartiere, superata la svolta verso piazzale Dèrgano.
In piazzale Dèrgano ero stato anni prima. Tutto era carbonato e umido lì. Stracci pesanti di acqua, non strizzati, attaccati a fili della biancheria corrosi nella plastica, arrugginiti nel ferro interno, pendevano dai balconi di ferro, la graniglia povera commista alla vernice della muratura, le mollette in legno consunto.
Là avevano sparato a un uomo.
Lo avevo visto riverso, tutto attorno era una realtà rallentata, il colpo – dicevano – era stato secco, rauco, una tosse. La polizia stazionava lì, gli stivali opachi dell’ufficiale alto, il numero fittissimo di randagi affacciati in cerchio per scorgere lo scanalare del sangue, a sorpresa scurissimo e mucoso, sull’asfalto di piazza Dèrgano.

Il luogo della terapia è una piccola casa al centro della corte in un palazzo di ringhiera, non distante dall’ex nosocomio psichiatrico Paolo Pini, dove alla madre di mia madre praticarono cinquantasei sedute di terapia elettroconvulsivante, gli elettrochoc che la condussero al suicidio. L’accademia della sua morte di esausta. La terapia elettroconvulsivante sta per essere reintrodotta a Guardia Seconda, presso il Policlinico: si sappia.
La piccola casa è adibita a terapie sperimentali. Sono terapie che tentano di ridurre l’assunzione di farmaci, l’opposto delle ricerche condotte dalle multinazionali. E tuttavia gli psichiatri e le psichiatre del centro firmano ricette per farmaci di seconda, terza, quarta generazione (i ricaptatori noradrenalinici, li si può prescrivere per un anno al massimo, gli effetti collaterali inducono sospetti, il mal di testa grigio colpisce il 10% dei soggetti). I pazienti non tollerano l’impatto con le terapie di avanguardia. Sono colpiti da delirium tremens, a volte, da orticarie giganti, da febbri costanti.
E si distribuisce metadone pure. Si fa da SERT. Allora c’è la fila dei nuovi tossici.
I nuovi tossici milanesi io non credevo esistessero in questo modo. Sono universitari della Bicocca, della Bocconi, quadri, manager, gente del terziario e però anche bulli da discoteca, gente che sta in officina o in cantiere – questa dittatura del proletariato che annulla ogni differenza di classe e invera il suo opposto, che è comunque dittatura di un proletariato.
Entra nella stanza dove collaboro io una ragazza alta e pallida, fuori fa freddo, lei si è levata ogni abito fino alla maglietta. Controllo: non buchi sulle braccia. Il suo sguardo, intristito o etilico, comunque svuotato o internato, incarcerato in un’interiorità non qualificabile, è ciò che tento di studiare abolendo le differenze tra me e lei, tentando di vibrare insieme a lei, il suo minuscolo inarrivabile sisma psichico: esistenziale.
Io sono qui per collaborare con i terapeuti, sotto la supervisione rigorosa degli addetti responsabili. Un umanista che si trova in mezzo alla città delle alte torri calcaree che crollano, le torri che Sigmund Freud e i suoi figli putativi per un secolo avevano eretto – quella città della speranza già malata.
“E’ perché stanno ai piedi”
“Cosa?” domando, mi scuoto dal torpore dell’empatia e della fantasticheria.
“I buchi. Lei stava cercando i buchi”.
“Dammi del ‘tu’, per favore”. E’ perché mi sento coetaneo, ma non è vero: io sono un quarantenne, la ragazza ha vent’anni appena.
“Stanno nei piedi, perché nessuno così li vede”.
“Lo so”. Lo so: si fanno in casa, da soli, vivono con i genitori e si chiudono nella stanzetta, per chi ha anche soltanto visto i Settanta, per chi giocando a pallone osservava i gruppi in circolo di tossici ai giardini mentre scaldavano con la fiamma dell’accendino sotto la scatoletta del Saridon – è incomprensibile che questi ragazzini si facciano da soli. Lo speedball che si procurano, coca o anfe con ero. Cosa piace?, cosa conduce a un’onda depressiva commista all’eccitante?, cosa li trascina da dietro la Centrale alla camera dove iniettano nel piede? Soli…
“Non sento niente. Non è che ne voglio uscire, ma voglio uscirne”.
Dicono sì e dicono no: contemporaneamente.
L’aumento delle patologie legate al borderline, la semipsicosi al limite della personalità multipla, ha subìto un’accelerazione impressionante in questi anni.
Alle risorse umane delle aziende, quando ancora assumevano, prima della crisi finale, sceglievano spontaneamente e senza accorgersene i candidati più borderline: deboli nell’identità, davano tutto sul lavoro, distruggevano il microclima dell’ufficio, confliggevano, era un disastro.
Che cos’è politico, oggi?
Dove ruota il disgregamento?
Dove si trova il ciclo senza fine dell’invenzione, dell’idea e dell’azione?
La fine di tutto il nostro esplorare…
“Il corpo, non lo sento. Vado con ragazzi e ragazze, non lo sento”.
“Non stiamo facendo psicoterapia” dico. “Non parlarne, se non vuoi”.
“E’ indifferente. Non sento niente, nemmeno questo che sto dicendo. Ci sei tu lì davanti a me, non lo sento”.
La materia è diventata la nostra idea. La teodicea del banale, la difesa delle bave umanistiche.
“Tu non puoi capire. Noi amiche ce lo diciamo. Non sentiamo. Ci lecchiamo. E’ indifferente. Tu sei lì che ascolti, io sono là che guardo. Non si sente niente. Coi ragazzi è uguale. La fine delle serate: è uguale”.
Alzatevi, andate: leccatevi l’un l’altro. Le notti fosforescenti, le notti dell’impero di occidente.
“Non puoi capire. Senso del futuro. Che domanda del cazzo…”
E’ bella, lievemente sciupata, sotto gli zigomi. Sarebbe recuperabile: sì, recuperabile a cosa? Ecco la Dea Normalità, alla cui presenza invisibile la mia generazione è stata abituata nella fascia prenatale. Il feticcio della generazione metropolitana che ci precedette. “Non immagini un futuro? Figli? Lavorare?”
Tace. Lievemente imbronciata, solleva le mie stanche capacità di eccitarmi per qualcosa. Vorrei trasmetterle carne, vorrei inoculare in lei sperma sterile, vorrei scuoterle il gomito e slogarlo contro il muro. Lasciare la bava della mia generazione sulla sua schiena che non potrà comprendere…
“Se mi dicono domani di andare in Australia, ci vado. Non c’è qualcosa di preciso, non so, non penso al domani. Quando mi faccio, forse, non penso, ma magari penso anche al domani”.
La nuova generazione italiana si esprime quotidiamente con un lessico medio di 500 termini. Il resto è: puntini di sospensione, avverbi, treni di parole, gesti extraverbali. Lei agita le mani.
Io tremo la mattina, in ansia, nel sisma, non avverto la terra sotto i miei piedi, la pavimentazione non esiste più, tremo per la crisi. Sono scosso dalla mia povertà futura. Sono precario da quando lavoro, da ventidue anni… Io… Io… E la ragazza che sta pronunciando parole come immersa in un liquore brunito, denso: “… che il senso del futuro è una stronzata. Quali sogni?”
Dove è la cittadella del potere da assediare? Dove noi, se mi guardo attorno nel sisma del futuro, assalito dagli spettri? Noi non ci siamo, siamo inesistiti, introiettammo la borghesia mangiandola.
All’improvviso entra R.: è la psichiatra che fa la volontaria ogni domenica. La ragazza che ho davanti la osserva svuotata. Uomini vuoti, svuotati, che siamo… Sta urlando, R., io non capisco, sta urlando di venire, venire a vedere, la televisione, è gravissimo, io mi alzo, è tutto rallentato e convulso al contempo.
La ragazza è abbandonata. Sembra indifferente all’abbandono, ma non lo è: la radice nera, lo so, è l’abbandono – un abbandono infertole prima ancora che iniziasse.
La sindrome universale, planetaria.
Vado alla sala comune dei terapeuti, il televisore è acceso, Silvio Berlusconi è pallido, è buio, è allungato nel volto cavallino, è il Padre di Tutti, ha la bocca rotta, sanguinante, Nosferatu contrario, ineludibile, su qualunque canale televisivo, chiunque sta avvertendo pietà per Silvio Berlusconi, l’Uomo Colpito: da cosa? Si alza, spalanca la pesante portiera blindata dell’auto, la body guard tenta di coprirlo, ha lo sguardo assente, fuori di sé, spiritato, è il piccolo Dioniso dei misteri brianzoli, è assurto a re ed eccolo colorato di sangue shakesperiano. “Shakespeariano” non significa nulla, oggi. E’ in mezzo alla folla, c’è confusione, è piazza Duomo a Milano, ha i denti rotti, gli incisivi scheggiati e il labbro lacero, spalanca le braccia, mostra a chiunque che è salvo, con un gesto cristico. “Cristico” è un aggettivo privo di senso, oggi.
E’ lui.
Tutto è lui e lui è tutto. Ha occupato tutto: qualunque simbolo, qualunque gesto, ogni accadimento, passato presente e futuro, ogni falsificazione e qualunque certificazione di verità, la regola e la normalità e l’illegalità e il terrore e l’assenza di terrore. Ha portato a termine il progetto rivoluzionario, capovolgendolo.
E’ la Carne del Buon Nonno: ecco la sua fragilità mortale. Empatizzano tutti. In un film su Hitler, La caduta, interpretato dall’attore tedesco Bruno Ganz, indugia il regista col primo piano della mano che trema per il Parkinson, la mano di Adolf Hitler: ecco l’oltraggio, ciò rende empatico chi ha tentato di distruggere l’empatia in toto.
E noi? Io, gli psichiatri, la ragazza dello speedball? Dove siamo? Non siamo nel luogo dove si tenta di ricostruire l’empatia?
Quale atto è l’atto politico? Chi ha ferito Silvio Berlusconi oppure le braccia aperte mentre sanguina di Silvio Berlusconi?
Perché assistiamo? Perché, ancora una volta, gli occhi svuotati davanti allo speedball “schermo”?
Perché la sensazione disperata della domanda: e ora cosa facciamo? Quale punizione ci capiterà?
Verrà accertato che il quarantenne feritore del premier è sotto terapia psicofarmacologica, viene seguito in un centro come quello dove collaboro io. Il quarantenne feritore invierà subito le scuse al premier che ha sfregiato: chiederà: “Scusami”.
O mia generazione, tra le perdute dei secoli tu sei la pallida – la tua violenza ti spaventa e il padre non ti perdona. Strappa il tuo cuore, nelle buche della terra nasconditi.
Fora l’occidente l’impero che transita di qui.
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