mercoledì 30 giugno 2010

Romanzo infinito / settima sequenza

Orbe di Dentro
La visione del sabba


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Quei s’attuffò, e tornò su convolto;
Ma i demon, che del ponte avean coverchio,
Gridar: Qui non ha luogo il Santo volto:
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio;
Però, se tu non vuoi de' nostri graffi,
Non far sovra la pegola soverchio.

(Inferno, Canto XXI – 47-51)
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Sentiamo il tuo fiato sfiorarci. Come l’eco di una preghiera, adorarci.

Di vertigine in abisso ti muovi, solcando le scie stellanti di una caduta all’indietro nel tempo. Di lume in membrana, respiri senz’aria, ondeggiando dai tendini contratti alle suture tra le cellule stanche.

Il volo sotto la pelle del tempo fende torrioni di alveoli e carne sgranata. Trapassa trame di sonno e battiti di morte. Rade orizzonti di vertebre e ventricoli serrati. Trabocca il liquor dalla pia madre dentro il midollo e l’apnea si scioglie nel brivido della discesa. La sistole impazzita increspa linee vermiglie di sangue e la risacca schiude papille umide di sale. Arde allora più forte il ricordo sotto la cenere del sonno e brucia come ghiaccio in mezzo agli occhi. Occhi senza palpebre è la tua giovane pazzia. Aperti per sempre abbagliati dal sole in picchiata dentro la casa di vetro senza porte.

Sei sveglia ancora una volta e le tue labbra tremano parole.


Con gli occhi spalancati scivolo nel letto disfatto al suo fianco, ma senza toccarlo. Continuo a sognare senza dormire. A chiedermi se è giorno o notte. A rovesciare le mani contro il soffitto, così vicino. A traguardare il suo sonno stupido e stupito. Il volto riverso sul cuscino e la bocca spalancata come morto. L’aureola dei capelli scolpita intorno alla testa di un santo dopo il martirio.

Il martirio di quella notte. Il ricordo brucia come ghiaccio sulla fronte. Il tuo martirio senza santificazione. Lui è lontano e non sa e non vede. Tu sei sola, ai piedi di una scala. Stai salendo i gradini. Uno ad uno, nell’oscurità.

Ti senti come se fossi già morta. Una morta caduta su questi gradini. L’angoscia ti mangia lo stomaco ma devi salire ancora. Fino in cima alla scala. Fino alla porta di ferro. Aprirla e trovare la voce per chiedere aiuto.

La salvezza è oltre quella porta. Qualcuno ti aiuterà. Qualcuno sentirà la tua voce. Ma i tuoi piedi sono torpidi e pesanti e tutt’intorno è nero come fuliggine nera e il dolore è rosso animale rabbioso rinchiuso dentro le viscere offese. Grida il tuo nome che non ricordi. Ti chiama alla resa e all’abbandono su questa scala sbrecciata.

Sto salendo un gradino dopo l’altro. Lentamente, meccanicamente, appoggiando entrambe le mani a destra. Sotto i polpastrelli un muro liscio e freddo come la pelle dell’iguana. Come la bolla sottile e tesa della mia coscienza che può rompersi da un momento all’altro e rigettarmi indietro nel gorgo senza volto che mi insegue e che sento ringhiare dietro di me.

Lara, piccola Lara, crisalide impastata di nervi e paura, fermati. Ascolta. Dietro di te non c’è nessuno. Solo la tua ombra che galleggia a corpo morto in mare aperto. Sei pronta ad affondare pregando?

Lontano sopra di me qualcosa gocciola. Forse dietro la porta c’è un acquaio con i piatti dentro e un rubinetto con il becco di ceramica allentato. Le gocce cadono nell’acqua cadenzate. Una ad una, una goccia dopo l’altra. Un gradino dopo l’altro, una goccia dopo l’altra. E poi un gradino e un altro ancora. Un’altra goccia e un’altra ancora. Una goccia sempre la stessa che torna a cadere quando invece dovrebbe essere già acqua morta nell’acqua dell’acquaio.

Quella goccia maledetta che non arriva a bagnare la tua pelle alida. Si gonfia lenta e lucida spingendosi fuori dal foro di gomma e poi cade esplodendo nella tua testa. Scocca nel fondo del mondo, freccia infissa nell’aria con la sua sottile ansa di acqua. Si infrange in mille gocce di luce contro la scintilla del buio. Sempre più in fondo, dentro l’alveo che ti ha generato, là dove gli elementi si fondono nella polvere, senza possibilità di bere una sola goccia.

Ti prego, una goccia sola per nutrire il mio arido cuore arso che ha sete di quella goccia che non cadrà mai dentro di me.

Eppure il cuore di sabbia è ancora nel tuo petto. Falsamente al suo posto. Lo senti battere cupo da molto lontano. La schiena è bagnata e devi avere la febbre. Ora la tua ombra è un gorgo di braccia e bocche che vuole afferrarti e spremere dalle tue membra il succo di quella goccia che non cadrà mai dentro di te. Affrettati a salire, Lara.

Forse adesso salgo ancora un gradino e le mie dita trovano un interruttore sul muro. Una luce che si accende e scioglie le ombre della fuga. E illumina il volto sorridente di mio padre che mi tiene stretta al petto sul divano di vimini nella terrazza della casa sulla spiaggia, quando avevo sei anni e avevo deciso di non crescere più.

Lara, scricciolo senza piume che sorride strizzando gli occhi azzurri in faccia al sole, perché non sei con tuo padre adesso? Solo lui può salvarti da te stessa. Lo sapevi già prima di andartene. Non hai voluto credergli.

Ma l’interruttore non c’è e i gradini non finiscono mai. Allora la luce può essere dall’altra parte della scala. Perché non ci ho pensato prima? Allungo il braccio e faccio un passo verso sinistra. Mi sposto ancora a tentoni di due passi. La mia mano sfiora l’altro muro e di colpo la goccia smette di cadere lontano e l’oscurità si fa di velluto. Allora mi saetta di nuovo in mente l’immagine sfocata di una piccola porta di ferro, bassa in cima alla scala, con la maniglia segnata dalla ruggine.

Devo andare avanti ad ogni costo. In alto verso, quella porta. Il respiro mi graffia i polmoni ad ogni passo, ma devo salire ancora. Mi trascino verso l’alto non so come e salgo altri due gradini, fino a quando nel buio qualcosa di viscido mi cade sulla faccia. Una lanugine fredda mi si attacca alle labbra e al naso. La respiro dentro le narici e sento la pelle delle braccia accapponarsi e grido di sorpresa e ribrezzo. Ma non odo la mia voce. Allora urlo di nuovo, espellendo tutta l’aria dai polmoni, ma sento solo la gola strozzarsi in un fiotto d’aria.

Le labbra brulle battono a vuoto. Non riesco ad articolare alcun suono. Non posso gridare. La mia laringe spreme solo gorgoglii indistinti. Come fiocchi di vetro. Ho perso la voce e sono quasi nuda. Inchiodata alla parete, realizzo di avere addosso solo la camicia. Sfioro le mie gambe nude e sento sulle dita una colla tiepida. Sangue. Sto perdendo sangue. Allora mi sento morire e posso solo morire ora, su questa scala d’inferno. Chiudo gli occhi e abbraccio il buio quasi con sollievo. E finalmente piango. In silenzio, senza il conforto del lamento.

Vieni, corri da me piccola Lara. Vieni tra le mie braccia a piangere le mille pene che senti salire dentro e non avrai più paura. Un giorno anche tu ti perdonerai, come io ti ho già perdonato. E non fuggirai più in quell’altro mondo. Perché io non ti lascerò più andare via.

La tenebra intorno a me è tanto fitta che quando riapro gli occhi vedo solo pece e per un momento mi sembra di essere anche cieca e lo stomaco mi abbaia un morso di orrore. Poi, sollevando una mano sul viso, mi balena davanti agli occhi una forma guizzante e incerta, come una macchia grigia nella notte. Passo ancora velocemente la mano davanti agli occhi e la forma si staglia ancora una volta nel buio. Solo allora sfioro con le dita le palpebre, per toccare la verità delle pupille.

Grazie al tuo Dio non puoi parlare. Non puoi chiedere aiuto. Ma almeno puoi vedere. Ti ha fatto grazia della vista, il tuo Dio assente. Non contare più su di Lui e continua a salire.

Una voce dentro mi dice che devo muovermi subito, adesso. Devo riprendere la salita di questa scala senza fine, prima che l’orrore senza nome guadagni un volto alle mie spalle. Ma non posso muovere un solo passo, perché proprio adesso mi sta succedendo ancora. Quella sensazione di freddo urticante al centro della fronte, come un occhio di ghiaccio. Poi qualcosa che si strappa piano in fondo alla testa. Sembra il rumore di una porta che si apre dietro gli occhi. E vedo. Vedo scorrere le immagini come su uno schermo acceso.
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