sabato 19 giugno 2010

Cuore di Cedro

Prima.

Fu una sera di giugno che pensai al freddo. A giugno l'inverno è lontano, ma l'umido del temporale sale coi ricordi in cielo e compare una nebbia sinistra.

- Ghiaccioli al cedro ce n'è?... Non li vedo...
- Al cedro? Ma non li fanno più, da decenni - ride il baffo.
Protesto, spiego di averlo trovato altrove, da poco.
- Allora vai altrove - mi risponde. Una smorfia insolente gli attraversa gli zigomi.
- Sei vecchio e moderno,- gli sussurro - un connubio davvero poco libanese.
Mi guarda, stupito, non dice niente.
Alzo la voce.
- La sai un'altra cosa? Questo posto sgomita col buongusto.
Allora il baffo barista socchiude i due piccoli occhi appannati e s'alza in piedi: - Te l'ho già detto, mi sembra, puoi andare a ...
Lo interrompo, mi sporgo oltre il bancone e abbaio:
- Altrove ci vai te e il tuo schifo di bar. Conosci la strada.


Fu una giornata speciale, presi solo due schiaffi e un calcio all'inguine. Passai la serata con una borsa del ghiaccio tra le palle e pensai al freddo.
Pensai alle giornate che iniziano che ancora è notte, finiscono che è già notte, passati con il grasso dei motori tra le mani e i calendari Pirelli sui muri. Pensai al cuoio scintillante dei mesi invernali e agli onomastici in latex: san Jessica, san Moana, san Pamela. Pensai a come soffia caldo tra le dita il vapore arabico, bruno e zuccherino dalle bocche appena sveglie, strette nelle sciarpe, esperte nel suggerire a baristi maldisposti screpolate escursioni a quel paese. (Che non è il Libano, che non è in Arabia e che vive nell'immaginario popolare come un luogo sacrosanto.)

Seconda.

Ancora non albeggiava, nevicava.
La tapparella del bagno, alzata, lasciava specchiarsi un lampione così carico di neve che pareva in procinto di radersi. Dalle case giungeva il bagliore intermittente di riti pagani dimenticati nelle prese di corrente: oppure, come mia madre ancora fa, lasciati di proposito, penso a voler dare un'atmosfera natalizia agli incubi, in un oblio di campanelle e angioletti crepitanti, Sabba laico all'ombra di un russare sposato tanti anni fa.
Poteva pure essere così, ma il mio problema in quel momento era respingere l'arrampicarsi in gola di piccoli spruzzi amarissimi, grumose reliquie smoccicate di uno spuntino notturno poco salubre: Dòner Kebap e Sgnapa Trentina. Roba da Siori, preludio di conati violenti e condotte biliari in sciopero selvaggio. La neve, nel frattempo, continuava a tormentare tutto, lieve.
Montai in sella, misi il casco e accesi, feci scaldare il motore e partii lento, sondando lo spessore tra le ruote e l'asfalto, frenando di colpo per verificarne la scivolosità. Una ragazza bardata come un soldato crociato sfrecciò al mio fianco su uno Scarabeo e mi donò coraggio, con un'accelerata profonda partii per l'officina.

Terza.

Curva su curva, a ritroso e d'anticipo, lasciavo sulla neve una striscia lunga e regolare, un solco di bisturi rovente nella gelida pelle della provinciale per Colonnetta.
Uscendo dal paese una sciabolata di vento mi ruggì contro, la moto ebbe un sussulto ed io sgasai a testa bassa, strinsi i denti e ci trovai un coltello in mezzo: la campagna innevata divenne giungla oscura, i primi raggi di sole filtrarono da un cielo di scimmie e uccelli bizzarri. Accelerai e strinsi il bolide tra le cosce. Una leggera erezione fece capolino.

Immaginate una Mompracem subalpina e un corsaro urbano circondato da tigri dalle striature regolari e feroci, a lisca di pesce, pelosi parcheggi per disabili e mutilati.
Immaginate il poderoso insorgere della CENTAUROKAN 60: una fiammata nervosa che con urgenza squassa il silenzio di una nevicata, un rombo acido che espugna le distanze senza trovare ostacoli, se non una lastra di ghiaccio spessa come un guardrail ed un guardrail affilato come un rasoio. Fffffssssshhhhh...STUNC!
Immaginate di lanciarvi con una liana in una foresta impenetrabile, con la visiera del casco appannata dall' alito cattivo e un'erezione in corso.
Tarzan deve saperne qualcosa, visiera esclusa.


Quarta.

Tremavo tutto, un sisma sottozero. Lo spavento, il boato, il volo, le braccia spinose dei rovi che scoppiettano sulla giaccavento, il tonfo umido della propria carcassa in una piscina buia, senza materassini nè mojitos. Un liquame oleoso invase il casco, le narici, le orecchie, mentre minuscoli origami marroni sfilavano gajardi come majorettes tra la visiera e gli occhi spalancati. JJJ, aiuto.
Potevo solo sperare in un miracolo, potevo solo affidarmi al cielo, non c'era maniera di uscire da quella pozza di merda e ghiaccio da solo, e l'avvertita presenza della Centaurokan in fiamme a bordo vasca non migliorava le cose.
Avrei pianto, ma stavo annegando in una cloaca d'acque nere, un cratere colmo di feccia e disgorgante liquido dove il pianto non è ben visto, vige semmai l'abitudine a decomporsi con rassegnazione.

Preghiamo:

Oh Dio Onnipotente aiutami. Oh Dio, Dio mio, Dio di misericordia concedimi la tua stretta di mano santa. Dio di grazia e clemenza, Dio santo di splendore preséntati, stringimi la mano, diamoci del tu, parliamo da persone civili. Avanti, non essere timido, non mi rimane molto...Dio mio infinito, allunga quella madonna di mano...per favormpsf...perlamad...allungaa...perl...
...mpsffh...allungaaala.....mpsh...Dio Dio...phmff...prfhhp..Dio...

Il soliloquio che iniziò come una preghiera poteva terminare in una sola, unica e grande presa di coscienza trascendentale: l'urlo odioso e intercalabile di una bestemmia.
Ma al compiersi della prima sillaba la gola soffocò come un bidet intasato da un fiocco di raffia per guarnizioni.

Quinta.

Una ex cantante lirica di Beirut, rifugiata politica in Italia e barista a Poggio Scalo, vide la scena, smise di aspettare la corriera e intonò un'aria che in apnea giunse Vivaldiana, come un trillo rondìneo, ma più verosimilmente cacciò un urlo spaccavetri, uno squarcio a cantagola che fece smettere di nevicare e minò il cielo bigio.
Due contadini attorcigliati alle mogli balzarono giù dal letto.
Bebbe Alfonsi e Gentile Liguorio non si parlavano più, da anni: un contenzioso sul confine dei terreni rovinò un'antica amicizia ed incrinò pesantemente i rapporti di buon vicinato.
Ma quella mattina si ritrovarono fianco a fianco, come sui banchi di scuola, come sulla littorina per Passo Corese, dove si scambiavano santini peccaminosi e andavano al bagno a turno; si ritrovarono, con il segno del cuscino sul viso schizzato di liquido per batterie, le pantofole sprofondate nel fango, i sensi interrotti dal fetore della vasca di spurgo dell'officina. Si ritrovarono e mi salvarono.

Sesta.

Ero coperto di robaccia, lei mi baciò sulla fronte e s'inginocchiò ridente pregando Allah, mentre Bebbe e Gentile battevano le mani e si strizzavano i pigiami. Il lamento di un'ambulanza cominciò a snodarsi sulla provinciale.

Andò così, non la rividi mai più: partì per il Libano qualche giorno dopo per sposare un magnate dei gelati.
Da allora frugo nervoso nei congelatori dei bar alla ricerca del suo sapore lontano, scavo nelle miniere di ghiaccio, ravàno tra i calippo in cerca della pepita giallo scuro che mi anela il cuore.
Di rado la ritrovo, e allora penso al freddo e soffro, soffro, il sangue gela, il cuore s'inasprisce e va sempre a finir male.

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