lunedì 12 aprile 2010

Cosa gira attorno al concetto di comprarsi un libro, e altre cose che girano attorno ad altri concetti

Ho avuto culo, certo. E sicuramente è il culo degli idioti, non la fortuna degli audaci. E in quanto idiota mediamente intelligente ho il dovere di smascherare il mio essere idiota, senza pudore alcuno, ed ecco allora che sono un idiota (in questo frangente, per questa occasione contingente, non meno di quanto io possa essere idiota per tutti gli altri accadimenti – perlopiù intimi, cerebrali, vergognosamente coscienti – che definiscono l’estensione della mia forma di vita nel dominio della Vita) perché guardo i prezzi di copertina dei libri; perché ci rifletto se sia il caso o meno; perché infine decido che almeno per il momento non è il caso, che soldi non ce ne stanno molti mentre di libri ancora da leggere è pieno in casa. Però ho avuto culo, anche se devo ammettere di aver fiutato l’occasione, proprio come quando ti dici “me lo sentivo”.

È uscito da poco, e da quando è uscito non faccio altro che passarci accanto, nel reparto novità, fissandomi sui colori della copertina, leggendo a morsi qualcosa dall’interno, rileggendone i risvolti. “Una bussola e un compagno di viaggio per tempi sempre più incerti”. Prima o poi lo compro, mi dico, e mentre lo dico avverto una scossa nei lombi, sento il cosiddetto fremito, tra le mie mani e quel libro passano 380 Volt di corrente continua. Prima o poi, ma non adesso. E non che costi chissà quanto: sono solo quindici euro. Ma si dà il caso che sono un idiota e sragiono, e in ogni caso vivo in affitto, e le spese sono tante, e guadagno poco più di un cazzo. I tagli alla cultura – in scala ridotta. Quindici euro per un libro non sono nulla – per un libro di valore indicibile, insomma, esemplificativo di un progetto editoriale di enorme portata. È evidente che mi merito in prima persona quello che succede a livello sociale. È chiaro che questo sentirmi impoverito culturalmente, questo vedermi umanamente deprivato e sterilizzato, vuoto, incolore, con una coscienza critica sbrindellata in mille presunzioni senza nessun riscontro reale – questi sono castighi, me li merito tutti. Sono, io, causa del mio male. Ma non piango me stesso. Perché ho avuto culo, e gioisco.

Ho trovato, nuovo di pacca e senza nessun difetto tipografico apparente, Assalto a un tempo devastato e vile (versione 3.0) di Giuseppe Genna, a metà prezzo, nella mia libreria remainders di fiducia. Era in bella vista sulla terza mensola del reparto narrativa italiana, copertina frontale, colori accecanti, l’uomo coi capelli fucsia incollato alla sua ombra amaranto, su sfondo verde acido, gli occhi e la bocca impossibilitati, avvolti in una gaffa violacea. L’ho preso e portato sulla scrivania del tipo, dicendo “figata – lo stavo proprio cercando – questo è culo – Assalto”, dicendolo con gli occhi vagamente spiritati, dicendolo a me stesso ma ad alta voce, un po’ per inscenare la solita vergognosa malriuscita goffa ostinata liturgia del contatto interpersonale, un po’ perché avevo ancora le cuffie nelle orecchie, per cui devo averlo detto con la voce un tantino più alta e invasata, e il tipo dietro il suo computer mi ha detto solo “è arrivato proprio oggi, è l’unica copia”, e io in cuor mio (in quel bolo indurito che resta del cuor mio, nella radura toracica adimensionale dove soffiano venti stanchi e senza direzione) lo sapevo, ed ecco perché ero lì: per guadagnarmi inconsapevolmente una consapevole fortuna. È arrivato proprio oggi, è l’unica copia, e adesso è sulla mia scrivania.

Assalto a un tempo devastato e vile, versione 3.0 – di Giuseppe Genna, minimum fax 2010.

Qualche ora prima, nel pomeriggio assonnato dal lavoro gastrico che intendeva digerire 2,25 euro di pizza margherita fingendo di avere a che fare con un pasto completo, stavo ascoltando una intervista radiofonica dello stesso Genna a proposito dello stesso libro – su Radio Alt, mi sembra. Ho ascoltato domande e risposte di una intelligenza edificante, rarissima, notevole, pensando che solo cinque minuti di questo podcast, un solo segmento volatile di questo lacerto infinitesimo della Rete, possano bilanciare i trent’anni di beata stupidità in cui siamo stati gettati a vantaggio del Nulla Storico e del brand. Mi sorprende, poi, la domanda sul doppio senso possibile del titolo: l’intervistatore chiede a Genna se sia effettivamente ipotizzabile, ancorché legittimo, interpretare il titolo in due sensi, e cioè: 1. “Assalto a un tempo” il quale tempo è “devastato e vile” e 2. “Assalto” (non si esplicita chi/che cosa sia l’assaltato), che allo stesso tempo riesce ad essere “devastato e vile”. Mi sorprende questa domanda perché anch’io ci sto ragionando da un po’, sulla possibilità di un simile gioco linguistico. E Genna risponde che sì, la doppia interpretazione è lecita, e non riesce a nascondere il filo di imbarazzo nel sentirsi “denudato”, come se fosse stato colto in flagrante, sorprendendosi di come non sia la prima volta che quell’intervistatore (mi spiace ma proprio non ricordo il nome né posso accedere in Rete, adesso che scrivo, per controllare) dimostri una capacità di analisi tanto approfondita, finanche nei dettagli. Che evidentemente non sono proprio dettagli – l’idea di inserire già nel titolo un artificio che è poetico, forgiandolo in un doppio senso che comunque riporta alla totalità (devastata e devastante, vile e avvilente, assaltata e assaltante) di quello che viene dopo il titolo stesso, all’insieme complesso di questo Zibaldone contemporaneo. O, se sono dettagli, lo sono in maniera fondativa per la coscienza autoriale e per il rapporto che l’Autore instaura con la propria Creazione per il tramite di questi dettagli (d’altronde anche le serrature sono dettagli, nell’interezza di un edificio). Bene: l’ipotesi del doppio senso era anche una mia ipotesi, quindi in quel momento era come se Genna stesse parlandomi direttamente. Mi sono sentito rinfrancato. Così è passato il pomeriggio di venerdì 9 aprile, San Demetrio.

Poi in Feltrinelli, dove ho letto in piedi il capitolo “Il meridiano zero” di Assalto, e il contributo di Edoardo Nesi alla riedizione per la collana I Quindici (sempre minimum fax) di Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace. Edoardo Nesi è il titano che ha tradotto Infinite Jest, svolgendo un lavoro oltreumano di cui ogni singolo nervo di ogni singola persona che sia interessata alla cultura (in questa nazione che sta facendo – e ha già fatto – di tutto per estirpare il seme di un approccio vero, ingenuo e coraggioso verso le manifestazioni della cultura) dovrebbe essergli grato. Scrive in due pagine una delle testimonianze più toccanti, umane e commoventi che si possano scrivere per l’autore americano. Conclude scrivendo di aver “imparato a vivere da un suicida”. Io stento a trattenere le lacrime, c’è una comunicazione orbitale di insegnamenti che si propagano da tempi e spazi – galassie – fuori da qualsiasi legge conosciuta, sento che anch’io imparo a vivere un poco alla volta, e in questo caso sto imparando a vivere grazie alle parole di un traduttore che scrive di aver imparato a vivere grazie alle parole dello scrittore più fenomenale, geniale e coraggioso dell’ultima letteratura made in U.S.A. Che se n’è andato, suicida, quasi due anni fa. Non so chi ringraziare prima, fra David Foster Wallace, Edoardo Nesi, la minimum fax nella persona di Martina Testa. Sento la tenerezza dell’amore, il caldo dentro gli occhi, la dolcezza lungo la gola. Affondo il viso nel libro, per pudore di farmi vedere commosso – di questi tempi è lecito commuoversi solo su Uomini e Donne. (Anche adesso che scrivo, vedo la tastiera sfocata, e le lettere bianche sugli angoli in alto a sinistra dei tasti che si allungano, nella deformazione salina del pianto che è sempre sull’orlo di traboccare. E che trabocchi, allora. Che sia quello che deve essere. Che mi si spacchi il cuore, per una volta, che ritorni molle, una polpa di tessuti e sangue vivo, che mi invada la consapevolezza. A cos’altro può servire questo tempo chiamato vita, se non a intenerirsi.)

Quindi esco e ragiono sull’imparare a vivere, con le cuffie alle orecchie, percorrendo a piedi Via dei Fori Imperiali nell’ora in cui sale ancora un po’ del freddo residuo dell’inverno trascorso, e una massa di luce anodizzata e morente avvolge le antichità, sprigionando un colore opaco e a basso contrasto, gassoso, omogeneo, come quello dei telegiornali nei TV color degli anni Ottanta. Poi, sul 3 direzione Thorvaldsen, penso che scenderò prima, per fare un salto alla libreria Zafary in Via dei Volsci, perché ho come la sensazione di poter trovare una copia di Assalto a un tempo devastato e vile (versione 3.0) di Giuseppe Genna, minimum fax 2010, al cinquanta per cento del prezzo di copertina. Me lo merito (imparare a vivere – una “radicalità traumatica” e traumatizzante – l’estensione del desiderio – il dominio, fottuto dominio, della mineralità – essere un altro – chi sono io – soggetto grammaticale – formalità logica – sede dell’avanzamento – un orizzonte mobile – mi rincorro e rifuggo – costretto e sbragato – io tra virgolette – tra parentesi – tempo di ridefinizione – determinare la resistenza – disarticolarsi). E ho avuto culo, certo.
____________________________________
Stampa il post

Nessun commento:

Posta un commento