mercoledì 20 ottobre 2010

Romanzo infinito / ottava sequenza

di Karim Chaloub


Orbe di Dentro

In fondo al pozzo


Perché gli uomini vanno alla loro dimora
eterna e i dolenti si aggirano per le vie
.

Ecclesiaste 12,5

Un paio di occhi grigi mi fissano dal sedile di fronte.

Mia piccola Lara, è veramente giunto il tempo di sguainare quel cuore tumefatto. Ancora un ultimo respiro, prima di lasciarlo esplodere nel petto e riempire di sangue le cavità riarse del tuo corpo. Solo allora morirà la sete di quel latte che non è mai stillato dal seno di tua madre. Colpa di quella sete se sei qui adesso. In questo vagone lercio che corre senza occhi nella notte. Su questo stesso treno della sopraelevata per la Seventh Avenue, un mese fa trovarono il bambino del rosario sotto un sedile. Un neonato di pochi mesi, livido come il piombo ma vivo. Avvolto in una coperta legata con una chotkij bianca. Una di quelle corde di cotone rigido che i cristiani ortodossi intrecciano a mano per la preghiera. Il rosario degli impiccati per fasciare quel piccolo corpo esposto al dio dei pozzi.

Siamo in pochi sulla metro che questa notte va a casa mia. In fondo al vagone, una vecchia con un grande gozzo rosa continua a litaniare parole in una lingua crepitante. È la regina degli stracci. Issata sul suo iperbolico trono di fagotti e buste gonfie di altre buste.

E poi ci sono loro due seduti di fronte. L’aria trucemente spenta. Alti e massicci. I sedili non riescono a contenere i loro corpi giganteschi. Intabarrati dentro gli impermeabili lucidi di pioggia, sembrano piovre spiaggiate. Il primo mi inchioda con i suoi occhi di fango. Senza curiosità. Con l’interesse e la concentrazione del chirurgo che si prepara a tagliare. Pure quello sguardo vivisettorio ha qualche cosa di inguaribilmente triste. Una perdita definitiva, forse. L’altro tiene la testa bassa sul petto, con i capelli lunghi sul viso. La scuote ritmicamente seguendo il rollio del vagone. Non riesco a vedergli la faccia. Poi, di colpo la solleva e mi sorride, aprendo una chiostra di denti bianchissimi. Tutti uguali. In mezzo alla fronte come un’orma bianca.

È molto tardi questa volta. Non avresti dovuto fare così tardi, piccola Lara. Non avresti dovuto accettare l’invito al party di Derek e Vivienne. Splendida serata, certo, e tutto il gotha dell’accademia. Ma lo sai che ore sono adesso? A quest’ora il tuo feticcio di legno è nel suo fodero di pelle nera. Al sicuro a casa tua. Tu, invece.

Prima di ogni lezione, il violino deve luccicare da cima a fondo. Deve risplendere del suono di cristallo che produrrà. E tu devi sorbirti tutte le interminabili lectures su Ševčík. E devi provare dieci volte al giorno il colpo d’arco di Paganini. Fino allo slogamento del polso. Credere, obbedire e combattere per raggiungere un giorno the unbelievable noisy, come lo chiama lui. Non ti bastava aver vinto una borsa di studio del Conservatorio di Venezia per la New York Musical Academy. Non ti bastava aver fatto il grande salto nella Big Apple a soli ventitré anni. No, scricciolo mio, avevi urgente bisogno di lucidare il tuo sogno americano con la benedizione di Mr. Derek Lewis. The greatest living string pedagogue, come recita lo slogan del suo sito web. Solo che ti costa un occhio della testa. O meglio, costa a mamma e papà un occhio della loro testa. Solo che per andare e tornare dal grande maestro devi attraversare mezza New York in metro. Magari alle due e mezzo del mattino come adesso. To get back into the hell asshole where you live. Già, perché la dolce Lara abita in una specie di scantinato lastricato d’oro. Un gold cellar al centro di Manhattan. Niente a che vedere con il grande e soleggiato appartamento all’ultimo piano di un condominio di Astoria Boulevard che il paparino le aveva trovato a metà prezzo. No, miss Lara Fornaro, la grande violinista, deve irradiare la sua augusta presenza perlomeno in un neighbourhood stile sex and the city. Come minimo nell’Upper East Side.

Posso vedere accendersi l’impronta in mezzo alla fronte dell’uomo che ride. Come una macchia di latte che tremando si dilata e allaga di luce opaca il mio campo visivo. Fino a coagularsi nelle onde di colore di una scena che lentamente si mette a fuoco davanti a me.

Lattine vuote e ciocche di capelli scuri sul pavimento di legno chiaro. Un afrore acido di sudore e birra. Di fronte al divano di stoffa verde, un televisore acceso sull’effetto neve. Sotto un paralume alto a fiori, due figure in controluce sul pavimento. Non sento suoni. Solo lo scatto ritmico di una goccia che scende nell’acquaio in cucina. Assordante nel silenzio. L’uomo che ride è sdraiato addosso a un corpo bianco. Una donna completamente nuda. Le sta sopra da tergo, schiacciandola con il corpo massiccio vestito solo di una giacca di pelle nera. Spinge con il bacino allo stesso ritmo della metro. La testa affondata nel collo della donna. Non riesco a vedergli la faccia ma posso vedere quella di lei. Bianca di gesso. E le mani piantate nel legno con le unghie. Non ci sono suoni. Il corpo bianco è muto come pietra che trema appena. Ma il volto è rigato di schiuma e rimmel. E gli occhi sono rovesciati all’indietro a mostrare la sclera bianca.

Quella donna sta avendo un attacco epilettico. Mio Dio, gli occhi bianchi su quel corpo bianco che affoga nel limbo. Quel corpo bianco che sta espirando la sua anima bianca nel vuoto. Quel corpo bianco che già non trema più e continua a dondolare avanti e indietro sotto il corpo nero di lui senza faccia che continua a spingere rabbiosamente come un grande cane nero su quel corpo bianco che non trema già più e quella goccia che continua a scendere dritta nell’acqua e il piccolo tonfo di follia liquida accompagna le frustate della muta bestia e le spinte alternate a due a due del vagone che corre sventrato nel buio e nella mia testa tutte le frustate e le spinte risuonano all’unisono con lo schiocco assordante di quella goccia maledetta.

La doppia vita del codice binario intesse la trama dei suoni di questa notte.
Questa corsa senza occhi non finirà mai e il giorno non sorgerà più.

Mio Dio, perché mi fai vedere questo? Quale peccato ho fatto per meritarmi questa dannazione? Abbi pietà di me. Chiudi gli occhi della mia mente. Non voglio più vedere il capro senza faccia scuotere la sua testa affondata nel corpo dell’angelo atterrato come muta cenere sul pavimento del vagone.

Dio aiutami, ti prego. Non voglio più vedere i suoi occhi macchiarmi l’anima. Quei piccoli uncini furenti schiacciarmi sul pavimento di questo vagone. Senza fiato schiacciata nel limbo dalla goccia di Belial sotto il corpo del cane nero che spinge la mia anima bianca nel vuoto fuori di me. La sputa come cenere nell’Orbe di Mezzo a sciogliersi nella schiuma del tempo. Dio, ti prego. Salvami. Se
non puoi strapparmi l’occhio di Ra, fammi morire adesso.

Piccola Lara, a lungo hai pregato per vivere la tua tragedia e non quella degli altri. Vedi, per la prima volta il Dono ti rinchiude dentro il tuo stesso corpo. Non c’è scampo nel vedere prima le cose. Già non gridi più. Già non tremi più e la schiuma bianca ti riempie la bocca. Lui ha deposto le sue uova dentro di te e vivrà per sempre. Nessuno potrà mai aiutarti. Nessuno ti salverà. Sei tu la carnefice di te stessa.

Ma adesso l’onda di colore sta cambiando. La scena si contrae e si raggriccia come pelle bruciata. La luce bianca va spegnendosi e il cane nero sembra sciogliersi nel fumo. Riaffiorano i contorni sbiaditi dei sedili. L’uomo senza faccia si volta a guardare dietro di sé. Il treno si è fermato e le porte si sono aperte sull’oscurità.
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